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martedì 10 maggio 2011

Giancarlo Pavanello: fumetti e libri sui fumetti + riflessioni sul fumetto [con una illustrazione] [post in fieri]



Giancarlo Pavanello
[1 febbraio – 5 maggio 2011]
il fumetto
Poche righe per fissare qualche paletto nel mio interesse per l'arte definita “fumetto”. Era una predisposizione, come lettore e come autore, latente dai tempi della scuola elementare. Alcune serie di disegni spontanei avrebbero dovuto farmene rendere conto ma, non incoraggiato e distolto da altre urgenze o fuorviato, la cosa non era stata incanalata.

Nei primi anni settanta, nel giro di Stampa Alternativa e dell'underground o della contro-cultura, qualcosa – molto poco - era apparso su “puzz” [ma anche su “combinazioni”]. Un giorno o l'altro intendo verificare e ricostruire meglio le mie collaborazioni di quegli anni [tutto in un armadio-archivio]. Andato a trovare Max Capa a Cuggiono [Milano], da Venezia, con un amico, entrambi militanti del Partito Radicale: ricordo che, di poche parole, mi aveva definito “pazzo”. Operava, grosso modo, nell'“area situazionista”: un grafico visionario, stranamente i suoi fumetti restano assenti nell'attuale panorama.

Dal punto di vista politico dovevo apparirgli del tutto irrilevante o, peggio, un candido o uno sciocco. Infatti, vivevo in un mondo tutto mio, quasi autistico, al cento per cento disinteressato a entrare in una carriera o in un campo d'attività. Con quella parola, “pazzo”, intendeva dire che non mi rendevo conto di essere portato per quell'arte, alla quale mi sarei dovuto dedicare invece di disperdermi nelle banalità.

Era estate e avevamo trascorso qualche ora sul Ticino, non lontano da là, non ricordo se era venuta anche la sua ragazza. L'avevo incontrato, de visu, solo in quell'occasione, poi via via mi concentravo sempre più sulla “poesia” e sul “teatro” fino a scegliere in modo esclusivo la strada di Adriano Spatola e degli altri autori delle ricerche verbo-visive, in una ufficialità d'avanguardia [approssimando], nell'editoria e nell'attività espositiva, abbandonando la politica intorno al 1975.

Angelo Quattrocchi, con il quale avevo collaborato, anonimo, per una sua guida d'Italia [“alternativa”], incontrato a Venezia nel 1977, mi aveva chiesto se sarei andato alla manifestazione degli “indiani metropolitani” a Bologna: voleva esserci, essere presente in una svolta storica, ne aveva la consapevolezza. Molti indicano quella data come la fine di un'epoca e un inizio. Ma mi sentivo del tutto estraneo, la cosa mi lasciava indifferente.

Eppure, a posteriori, in questa ripresa d'interesse per il fumetto è emerso che proprio allora o, meglio, subito dopo, cominciavano a maturare i giovani fumettisti degli anni ottanta, con le loro riviste e con le loro pubblicazioni, tuttora additati come gli iniziatori dei nuovi comics italiani. Per fare un esempio: “Cannibale” era stata fondata nel 1977 e c'entravano Stefano Tamburini [ex collaboratore di “combinazioni”], Andrea Pazienza e altri autori.

Dopo sporadiche vignette buttate giù nel corso degli anni come un monito inconscio, come cose senza importanza, intento nella mia poesia lineare e nell'attività espositiva [a parte il lavoro di traduttore], intorno al 2006 ho cominciato a riflettere su questa forma d'espressione verbale e visiva con cognizione di causa, come una mia possibilità fattiva. In un unico slancio: letture [scegliendo un settore sterminato] e operatività, prove, studio [perfino un corso abortito].

Nella consapevolezza critica di cercare una sorta di sintesi fra il mio percorso più noto, la poesia e la poesia visiva [una formula generica, tanto per capirci], e il disegno abbandonato, la grafica più della pittura. Nel frattempo, però, il computer aveva rivoluzionato tutto, aveva segnato una svolta epocale nel vero senso della parola: il mondo era cambiato in modo radicale, nella politica e nelle attività creative, nel costume e nelle mentalità. I contenuti. L'interazione. La società. Le arti. L'editoria. La globalizzazione.

In una ipotesi di collezione di fumetti, mi sono detto, quali sceglierei? Per esclusione: non i supereroi, il genere “fantasy”, non quelli d'avventura, i polizieschi o le spy stories, quelli che si comprano in edicola: inquadrati nella letteratura d'evasione o d'intrattenimento, nella narrativa, sia pure con tante eccezioni. Non i paperi, i topolini, gli orsacchiotti, gli animali antropomorfi [i “funny animals”]: simpaticissimi e che a volte leggo, anche se considerati per bambini o per ragazzini. Non quelli erotici. Non i manga [con bellissimi disegni], troppo numerosi e troppo reclamizzati. E così via. Ma allora? Non resta nulla? Il settore che mi interessa di più è marginale, di nicchia. In un certo senso, nel solco del “poema a fumetti” di Dino Buzzati [pubblicato nel 1969], che con tutta probabilità seguiva precedenti indicazioni internazionali: l'ho letto in una recente edizione, Mondadori, 2011.

Forse mi attirano i “graphic novels”, un genere grafico-letterario inventato da Will Eisner, se di grande qualità e in una loro evoluzione aggiornata, ma tutto sommato non tanto, non ho più voglia di distrarmi con la “narrativa”, con la fiction, quindi nemmeno con quei fumetti, che però hanno il pregio della brevità: quindi ne compro qualcuno per passatempo, per leggerli in treno o nei momenti di relax.

Mi appassionano le biografie, i fatti di cronaca, gli avvenimenti rimasti misteriosi, un settore giornalistico con il pregio di mettere a fuoco con parole e immagini i momenti salienti, come riassunti, come annotazioni puntuali [in questo filone ho individuato una casa editrice con un nutrito catalogo in tale direzione: Becco Giallo].

E soprattutto i “fumetti d'autore” [una formula generica, certo, ma tanto per capirci]: preferibilmente quelli realizzati da una sola persona, sceneggiatore e disegnatore, e allora in questo caso potrei apprezzare perfino la fiction e qualsiasi altro genere trasversale. Un settore in cui deve essere originale il disegno, non accademico, anzi, preferibilmente eccentrico. Un filone in cui mi riconosco e in cui intendo procedere, fra poesia e politica, anche se il più delle volte mi allontano dalle tavole concrete, dalle tecniche tradizionali, per cimentarmi nei fotomontaggi virtuali ad andamento narrativo.

Frammenti di fotografie per lo più reperite nella rete e montati come se fossero parole o enunciati visivi, come una sorta di moderni geroglifici di tipo realistico.

Gli anni scorsi mi ero reso conto che tutta la “rete” [la ragnatela “web”] è una sorta di fumetto, più complesso, essendoci l'immagine, il testo, la dimensione cinetica, la musica, un po' di tutto. Poi il solito ritornello che attraversa le arti della contemporaneità: tutto è stato fatto, niente di nuovo. Eppure la vita continua. I giovani si affacciano alla ribalta. Tutto viene ripreso, rimescolato, aggiornato.

Si procede. Si continua anche in un caso come il mio, quello di un autore che non sa fare niente: un cavernicolo, un pre-filosofo dell'età della pietra.

Un giorno, in una fumetteria di Milano, ho chiesto al venditore, indicando un reparto abbastanza defilato, dove andavo a scegliere per documentarmi: “Ma questo genere ha un pubblico?”. Risposta: “Solo gli appassionati, non tanti, di nicchia”. “E quante copie vengono vendute?”. “Vanno nelle fumetterie e ce ne sono circa duecento in tutta Italia...”. Insomma, non si stampano solo duecento copie, almeno 500 o 700, facciamo mille, tremila era la quantità che sentivo dire da piccoli-medi editori di qualità [non di fumetti] negli anni ottanta.

Allora quella produzione autoriale dovrebbe rientrare nel genere del “libro d'artista”: ecco perché finora non ho trovato fumettisti in grado di “prendermi” davvero coinvolgendomi in un vero e proprio entusiasmo [però li cerco con simpatia], molti sono bravissimi, veri professionisti, si vede bene che hanno seguito le scuole specifiche, eppure... eppure... resto freddo o abbastanza incuriosito.

Le riviste di fumetti sembrano scomparse dalle edicole e perfino dalle librerie specializzate, come quelle letterarie: forse ne arriva qualcuna nel circuito Feltrinelli. Internet ha davvero rivoluzionato il mondo, sta soppiantando “tante cose” a cui si era abituati, e sempre più via via che passano gli anni. Il discorso resta aperto: in attesa di smentite?

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Le recensioni e le segnalazioni vengono raggruppate tenendo conto della data di pubblicazione delle edizioni citate [ma non sempre in modo rigoroso, essendo inseriti brani pre-esistenti in altri miei blog poi cancellati], e in ordine alfabetico all'interno di ogni annata [nel caso di più opere dello stesso autore, preferisco indicarle, comunque, una dopo l'altra indipendentemente dall'ordine cronologico]. Non una compilazione bibliografica di tipo accademico, quindi: un post con cui intendo evidenziare un settore collezionistico secondo criteri personali.] 

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1973

[la foto seguente, difettosa, sarà sostituita quanto prima]




Giancarlo Pavanello
Leonardo Stano da Kochan. L’omomeccanico, Bompiani, 1973


Avevo inserito questo libro nella mostra “letteratura ciclistica e libri d’artista”, a cura mia, sponsorizzata dall’associazione “amici della bicicletta” [AdB] e dal Municipio di Venezia-Mestre, Biblioteca Civica Centrale, Venezia-Mestre, 2002 [cfr. il catalogo omonimo].

Dall’annotazione bibliografica: “Traduzione [dal tedesco] di Clara Lürig. Lettering: Angiola Castillet. Un volume con disegni grotteschi e crudeli, e didascalie maccheroniche a caratteri maiuscoli, come in un vecchio manoscritto. Dedicato all’evoluzione umana in senso meccanico, l’uomo come macchina. Gli accenti ambientalisti dell’unica pagina introduttiva, figurata, una “prefazio”, suggeriscono di inserire il volume in una collezione di “letteratura ciclistica”, anche se alla bicicletta viene dedicata una sola immagine, all’interno e in copertina [quindi con l’idea di renderla protagonista]: uno scheletro in perfetta simbiosi con il veicolo a due ruote, ‘per coprire lunghe distantie, lo scheletro umano se adequa a le esigentie’”.


Da un’angolatura completa, ora, va citata soprattutto l’introduzione che, come le didascalie che accompagnano i disegni, è scritta in un italiano re-inventato, fra il volgare e il maccheronico, con finta aria scientifica, per porre l’accento sull’annunciata estinzione della razza umana per opera delle sue stesse macchine, ideate e inventate. Ma con una rettifica non irrilevante: in tono semiserio [ora si direbbe con “accenti ambientalistici”], l’autore propende a credere che in realtà l’uomo si stia solo trasformando.

Assistiamo a un nuovo essere, “l’omo macchina”, a causa dei “contatti elettronici”, dei “gas di scarico di automobili e ciminiere di fabbrica”, dell’inquinamento dei canali e dei fiumi. L’ “homo novus” funziona come i principi della meccanica e perfino la sua anima ha “quattro marce in avanti ed una retromarcia”. Per pregare va al “supermercato”, poi viene ipnotizzato dalla televisione, la sua evoluzione continua verso la “fusione di arte e mechanica” [sic], destinato a diventare un superuomo, ossia un “homo elephans”.

Con questa premessa non tanto allegra, satirica, il seguito è una sequenza di disegni che francamente non si possono definire “belli” [ma proprio questo è il “bello”]: spesso, nemmeno le immagini surrealiste erano eseguite con cura, a volte approssimative, con segni incerti. Contavano soprattutto l’emergere icastico della psiche e la dimensione onirica. In questo libro, invece, la qualità dell’insieme deriva dalla precisione con cui viene estrinsecato il pensiero sarcastico dell’autore, nella sua visione a metà strada fra il grottesco delle  vignette comiche e la lucidità nel denunciare il processo di disumanizzazione dell’uomo contemporaneo, fra la pulsione burlesca e la lucidità didascalica, non immemore delle duchampiane “macchine celibi” [rivisitate nel gusto dell’assurdo e del comico].

Mentre i surrealisti serbavano, comunque, serietà e pathos perfino nell’umorismo nero, questo strano autore, che in tutta evidenza si firma con uno pseudonimo, pensa solo a indurre alla riflessione e al riso [amaro]. Molti i temi trattati, fra cui insistito è l’eros [vi figura anche un “homo eroticus”]. Una vignetta mostra una donnina nuda e all’interno del corpo del signore che la insegue si vedono i marchingegni che lo spingono verso la preda: una “caldaia a vapore”, un cuore ardente [in senso concreto, ha preso fuoco], una “turbina a vapore”. C’è abbastanza misoginia, tutto sembra pervaso da una neo-misantropia indotta dalle brutte pieghe che sta prendendo il mondo manomesso dall’umanità.

un sole-scheletro, ossa-luce, l’effetto dell’ “hashish” sul sistema nervoso centrale [l’omino si accende la sigaretta e al posto del cervello ha una bomba innescata], un automobilista è in simbiosi con la sua auto, parti del suo corpo sono parti del suo mezzo di trasporto, l’infarto è una pendola [il peso è il cuore, il cucù è uno scheletrino vestito da morte con la falce], la società dei consumi [un signore seduto sul WC e dentro di lui un maialino perfettamente posizionato sia per assumere il cibo sia per evacuarlo]

E come fare nella dittatura? Ecco, allora, un omino in varie fasi, nella fase 2 si ritira in se stesso, ossia dentro se stesso, poi comincia a uscire dall’involucro della propria pelle [da dietro], come durante la muta di un rettile, è come se abbandonasse una tuta, infine ritorna nudo, libero e felice senza dittatura. Intanto molti prodotti non nascono nelle fabbriche ma sono il risultato di incroci sistematici [e assurdi]: un cammello + un serpente = un reggiseno,  un elefante + un lombrico = un carro armato,   un soldato + una gallina = una bomba a mano, e così via.

“incisivo factore ne lo sviluppo del gorilla […] est lo continuo aumentare de l’inquinamento de l’aria”: nella linea evolutiva, dopo l’ “homo sapiens” arrivano l’ “homo smog” e l’ “homo elephans”

penultima vignetta: l’origine dell’olio di girasole: quattro elefanti sotterrati in senso verticale, le loro proboscidi erette attingono il petrolio come pompe, in superficie i girasoli sono il prolungamento delle loro code

***

1975


Giancarlo Pavanello

AA.VV., Pelo e contropelo, antologia di umorismo grafico e satira politica, Books’ Store, 1975

AA.VV. [Barletta, Bonaretti, Braschi, Buonarroti, Calvano, Casalini (Studio Arcoquattro), Contemori, Della Bella, Dragos Jovanovic-Fera, Forattini, Giuliano, Mairano, Malfatti, Mariotti, Mellana, Origa, Patanè, Skiaffino, Vannini], Pelo e contropelo, antologia di umorismo grafico e satira politica, Books’ Store, 1975. Prefazione di Ferruccio Alessandri. Copertina di Gian Cravero.

Dalla mia “collezione di libri anni sessanta-settanta” [ossia da quello che mi resta in varie scatole della cosiddetta “contestazione globale” di quegli anni], ieri, 21 luglio 2010, ne ho estratti alcuni, fra i quali questo libro interamente dedicato alle vignette umoristiche o satiriche, nella maggioranza delle quali i bersagli principali sono la DC [Democrazia Cristiana] e Amintore Fanfani, paladino anti-divorzista e anti-abortista.

Uno dei limiti di questo tipo di grafica, ma potrebbe essere un suo pregio, è il carattere effimero del messaggio veicolato [contestazione, contro-informazione], nel senso che, a distanza di giorni, di settimane, di mesi e di anni, spesso resta oscuro, essendo direttamente legato alla contingenza giornalistica, a sua volta con un linguaggio e con riferimenti a fatti in evoluzione. Tanto più incomprensibile alle nuove generazioni che non hanno “vissuto” le cronache prese di mira dai satirici e dai vignettisti. Sarebbe necessaria, in un’antologia, una serie di didascalie esplicative, per situare i fatti e gli scontri politici, ma in tutta ovvietà questo resta un compito degli storici, se ci saranno, altrimenti tutto è destinato a scomparire nel nulla, o quasi.

Ferruccio Alessandri, comunque, nella sua nota sottolinea l’importanza rivoluzionaria dell’umorismo e della satira nella lotta politica contro i potenti meritevoli di essere deposti, indegni: “L’autorità imperante si basa sul consenso delle masse, intendendo come consenso anche la rassegnazione o la paura”. Quindi: “L’umorismo, e nella fattispecie la satira, è un agente sgretolatore di questo consenso”. Insomma, ridere di qualcuno significa ferirlo, non rispettarlo, facendolo traballare nella stima degli elettori. “Il disegno satirico ha capacità didascaliche e di sintesi di situazioni che gli altri mezzi di comunicazione non hanno, specie a livello simbolico. Se azzeccato, può distruggere”.

La satira è sempre stata osteggiata dai potenti indegni [se non fossero indegni non sarebbero bersagliati dagli umoristi], spesso a denti stretti per fingere una liberalità fasulla, per cui anche questo libro resta attuale: basta soffermarci sulle vignette che sembrano adattarsi ai nostri giorni, al XXI secolo. In una, di Braschi [Crazy], si fa vedere la bagascia DC come una prostituta di strada: “La bagascia invecchia, ha perso qualche dente, altri ne perderà, ma batte ancora!”. Invece che al partito politico di maggioranza di quegli anni basterebbe pensare alla “casta” attuale, che imperversa da [quasi] un ventennio. E il disegno muto di un televisore visto come la finestrina a sbarre di un carcere, con una semplice didascalia, di Buonarroti: “Televisione: prigione della libertà di opinione”. Quanto di più attuale? E ce n’è anche per i “padroni” [i “capitalisti”, ora si chiamerebbero, in modo soft, “imprenditori”], per il “compromesso storico” DC-PCI, per l’MSI [padre della successiva Alleanza Nazionale]. E così via.

La grafica. Mentirei se io dicessi che tutte queste vignette sono belle, al di là dei messaggi: al contrario, ritengo che ce ne siano di bruttine, in cui il segno appare sciatto e stentato, il che potrebbe essere voluto: infatti, in questo “genere” [artistico-letterario], l’essenziale è la sintesi verbo-visiva arguta, la carica umoristica e/o satirica, l’efficacia. In questo senso, chiunque potrebbe essere in grado di diventare un vignettista o un fumettista, basterebbe volerlo, esserne motivati e cercare le porte aperte. Immagino che solo qualcuno degli autori antologizzati, presumibilmente in parte derivanti dall’humus underground dell’epoca, abbiano continuato con convinzione, affermandosi nell’ufficialità.

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1989

[la prima foto, difettosa, sarà sostituita quanto prima]




Giancarlo Pavanello

Bonvi, Sturmtruppen Storiken, 1989-1990

Bonvi, Sturmtruppen Storiken, “trimestralen” n. 4 [dicembre 1989, strisce nn. 542-720, per errore in copertina viene indicato il n. 718] e n. 5 [marzo 1990, strisce nn. 721-898, per errore in copertina viene indicato il n. 798], tutte del 1971-1972 : “pubblicazione di 4 numeri all’anno di strips cronologiche e datate”, G. Vincent Edizioni [il direttore è l’autore stesso, Franco Bonvicini]. Non edizioni originali ma prime edizioni [comunque, nei casi dei fumetti pubblicati a puntate la distinzione non è netta].

L’unico tema di queste strisce è l’antimilitarismo in generale, per forza di cose e per incisività prendendo di mira una particolare categoria, quella dei militari tedeschizzati vagamente nazisti, ossia i “crucchi”, ma al di là di questa o quella guerra, senza una presa di posizione contro un determinato popolo, sono presi di mira tutti i soldati del mondo: la stupidità delle guerre.

Macabro, grottesco, grand-guignol: c’è tutta la gamma beota e sado-masochista, truculenta,  del mondo militare e della guerra, appartenente alle tradizioni linguistiche dei ceti popolari, da sempre coinvolti in queste truppe universali. Nell’introduzione all’albo n. 4, tratta dal volume “Sturmtruppen, il fumetto di satira antimilitarista” [Gammalibri Edizioni, 1981], Giorgio Ferrari  ne fa un elenco, concludendo: “constatiamo che moltissimi stilemi sono diventati una costante bonviciniana ma, come tale, anche ripetitivi”.

Nei disegni [nella scia delle vignette umoristiche con gli omini tutti testa, naso e piedi, tuttavia con impronta personale e inconfondibili], il linguaggio è inventato, un misto di italiano e di tedesco ridotto, come nell’immaginario collettivo, a suffissi in “en” [nemiken, mitragliatricen, perikolen], alla “v” pronunciata come “f”, a qualche congiunzione “und” invece di “e”, eccetera.

Forse l’antimilitarismo non è più una bandiera delle nuove generazioni, come negli anni settanta [ora prevalgono la destra perbenista e ipocrita, il militarismo o l’indifferenza, ovviamente con tante eccezioni], per cui emblematica diventa una “striscia”, in cui entra in scena una recluta che si autopresenta: “… Eccomi finalmente giunto tra foi, kamareden:… falsificando la mia data di nascita sono riusciten ad arruolarmi volontario ed ora, per la gloria della patrien, sono pronto a gettare il mio cuore di biondo liceale diciottenne al di là dell’ostakolen!...”. Plagiato dai professori che gli hanno inculcato gli “immortali valori” [non quelli veri, quelli falsi] e i “sacri confini” della patria. Quindi, si chiama “soldaten Sigfrid Von Nibelunghen”.

Nell’albo n. 5 un “bonvizionario” [“24 paragrafi in veste di lemmi”] di Gianni Brunoro, sull’autore e sulla sua storia, sui temi trattati e sulle parole-chiave, per interpretarne il mondo e apprezzarne la carica e l’impegno politico, per esempio: “tandem”, un vocabolo che fa ricordare l’epoca in cui il fumettista, candidato comunista, “circolava per le vie di Bologna” assieme al candidato socialista, per simbolizzare l’ “unità delle sinistre”, una carica ideale che già, a livello nazionale, era minata dalla tendenza opportunistica a disgregare le forze di  opposizione al centro-destra [che negli anni settanta erano perfino passate  in minoranza nelle preferenze degli elettori].

***


Olivier Wožniak, révolution, Albin Michel, 1989. Una serie di vignette satiriche di varie dimensioni, alcune a tutta pagina, irregolarmente impaginate per accentuarne l’immediatezza irriverente, con disegni al limite dell’infantilismo ma grottesche al massimo, raggruppate per sotto-tematiche sul tema della “rivoluzione”: la rivoluzione francese, la rivoluzione russa, la “perestroika”, la rivoluzione sessuale, con intermezzi su alcuni cambiamenti epocali: la rivoluzione finanziaria, il 68, l’AIDS, la rivoluzione urbanistica, la rivoluzione tecnologica, la rivoluzione medica, il tutto per riderci sopra.

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2000


Giancarlo Pavanello

Magnus , 110 pillole - storboard, edizioni REM, 2000


Non è una nuova versione delle “110 pillole” ma, postuma, un’edizione sul materiale preparatorio [raccolto e realizzato in una serie di studi minuziosi] a questo  fumetto “per adulti” che aveva avuto tantissima fortuna, tradotto in varie lingue, fra cui l’inglese, il danese e il greco, negli ultimi anni di vita dell’autore [Roberto Raviola], nato nel 1939, morto nel 1996. In modo particolare, vi vengono riprodotti il soggetto, annotazioni, ritagli di immagini reperite da varie fonti, schemi di sceneggiatura e molte tavole di “storyboard”, che nel linguaggio della “letteratura disegnata” è una prima visualizzazione dell’insieme, vignetta per vignetta, striscia per striscia, tavola per tavola, in abbozzi elementari, per valutare lo spazio destinato al testo [nuvolette, didascalie, onomatopee].

Quindi, in fase “storyboard” il disegnatore studia, inoltre, se e come variare la sceneggiatura approntata, nella descrizione dettagliata del racconto, se di racconto si tratta [infatti, possono esserci anche fumetti didattici o non narrativi].

Un riassunto della narrazione, di Bepi Vigna, il ritratto psicologico del protagonista Hsi-Men Ching, di Giuseppe Pollicelli, e le descrizioni dettagliate delle mogli dai nomi poetici, di Claudio Dell’Orso, interessano meno in questa sede, o comunque basta sapere che l’eroe del fumetto è un ricco possidente e mercante farmaceutico [le pillole che danno il titolo a questa fiaba erotica sono afrodisiache, grosso modo fanno pensare al viagra]: vive con un harem di concubine, in più va con altre amanti o prostitute, perfino con travestiti, è un assatanato del sesso e un libertino ma in allegria, con eleganza e con estremo dispendio di forze, fino all’ultimo respiro, ossia fino alla malattia e alla morte in età giovanile.

La storia è tratta da un romanzo cinese [licenzioso] del XVI secolo [o, diciamo pure, erotico o pornografico], ma nella traduzione fumettistica l’ambientazione, i costumi e soprattutto le fisionomie ricordano maggiormente l’India, di sicuro con una voluta ricerca di commistione di elementi disparati, come fa notare Giulio Cesare Cuccolini in uno dei saggi introduttivi: “ex oriente lux” [tracciando alcune linee della “spiritualità” orientale presenti in una narrazione che resta “d’evasione”]. Una nota di Graziano Origa, “amore e morte”, sottolinea, inoltre, freudianamente, le due pulsioni, verso l’eros e verso thanatos: dall’inferno dei sensi  all’autodistruzione in un unico vortice vitalistico.

Puntuale anche un altro saggio inserito in questa edizione, “natura e metafora”, di Gianni Brunoro: la vita del protagonista si svolge nella sua tenuta, in una sorta di reggia, e proprio il giardino viene disegnato dall’autore in modo da rispecchiare i principali momenti del racconto, lussureggiante con il “tripudio dei sensi” di Hsi-Men Ching, notturno o cupo o sotto un temporale con il suo incipiente declino fisico, fino a diventare gelido e ostile con i primi presagi di morte, e dopo la sua scomparsa, quando la fontana è asciutta  e tutto resta  inaridito. Insomma, un’esistenza sciupata, contraria ai principi etici del taoismo, che ammonisce a scegliere la “via di mezzo”, lontana dagli eccessi.

Ma, gira e rigira, il fumetto, con le sue vignette dettagliatamente e insistentemente erotiche, è stato concepito soprattutto come un’opera pornografica, di qualità, certo, con eleganza e con maestria, non so se sia un filone degli anni settanta-ottanta-novanta, un po’ venuto a noia nel XXI secolo,  o tuttora un genere con molti appassionati [ormai il sesso lo si trova 24 ore su 24 in internet, senza la necessità di sfumarlo con insegnamenti morali più o meno sinceri].

Il disegno: definirlo classico o accademico sia pure in modo personale? Il segno nitido in tutte le vignette finite è così perfetto da rasentare il “calligrafismo”, come fa notare Giulio Cesare Cuccolini, dal tratteggio dei personaggi alle ambientazioni architettoniche. In questo senso, notevolissima, nella tavola 22, l’immagine con i fuochi artificiali, raffigurati come le pianticelle e le foglie della canapa indiana.  Eppure, a volte gli studi e i bozzetti e, appunto, ogni pagina di “storyboard”, sembrano più affascinanti nella loro immediatezza e nella loro urgenza, simili a pagine di scrittura.


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2001

  
Giancarlo Pavanello

Robin Wood e Domingo Mandrafina, Savarese – una croce tra le spighe, Roma, Eura Editoriale – EURACOMIX, 2001.


[La seguente nota è apparsa nel catalogo “letteratura ciclistica e libri d’artista”,  AdB, 2002, in occasione della mostra collettiva, omonima, a cura mia, Biblioteca Civica Centrale, Venezia-Mestre, 9 ottobre – 9 novembre 2002, nel decimo anniversario dell’associazione ciclo-ecologista “Amici della Bicicletta” di Venezia-Mestre]:


“Il primo è lo sceneggiatore, il secondo il disegnatore. La bicicletta figura in un episodio [su quattro] ma, nelle intenzioni degli autori, è in sintonia con il carattere dimesso dell’eroe anti-eroe, a volte ingenuo, e in cui si riconosce la cosiddetta gente semplice, un ex poliziotto in disgrazia che si adatta a vari lavori ma che, sempre, scopre misfatti e delitti, contribuendo al trionfo della giustizia. Ecco la prima vignetta: ‘Non sa neppure lui perché l’abbia fatto. Forse perché il salario di una settimana corrispondeva esattamente al prezzo della vecchia bicicletta, forse per l’insistenza di Brad a vendergliela. Il fatto è che a un certo punto se l’è trovata tra le mani’. Ma subito scatta l’azione: ‘Il grido di donna lo raggiunge all’improvviso’. Fumetto: ‘Sì, qualcuno ha dei problemi’. Savarese in bicicletta parte in picchiata [riprodotta, non a caso, anche in copertina]. La bicicletta come alleata dei poveri giusti contro i ricchi malvagi in automobile, secondo una visione schematica.”

Faccio seguire, ora, qualche appunto sugli altri tre episodi del fumetto, per completarne la recensione anomala:

Il primo racconto disegnato. Ai tempi prolungati del Ku Klux Klan, un tranquillo uomo di colore, con famiglia,  viene legato a un albero, di notte, e barbaramente ucciso da un gruppo di orridi incappucciati, con la falsa accusa di “avere rubato la terra a un bianco”. John Savarese si imbatte nel suo cadavere, accanto a una croce maleficamente esibita dai razzisti, e si mette in contatto con lo sceriffo, che ha la fisionomia appropriata per apparire uno della setta, ne era il capo, infatti. Una didascalia: “Lo sceriffo Graham è grasso come un maiale, ma nel suo ufficio non c’è un granello di polvere. Ogni minuto si asciuga ossessivamente un inesistente sudore. Ha gli occhi da pesce morto”.

Smascherato, tende un tranello a Savarese, che a sua volta sta per essere “giustiziato” dalla società segreta: “Sei accusato di praticare la magia dei negri, di proteggerli, di interrompere il corso della legge. E questo tribunale ti giudica colpevole. Sarai fucilato, ragazzo”. Ma interviene la polizia e la vera giustizia trionfa.

Il secondo racconto è quello già riferito, quello in cui la mobilità di Savarese è affidata a una vecchia bicicletta. Aggiungo che questa volta l’investigatore per hobby si mette con una bella ragazza dal volto angelico [quindi, non ha la fisionomia della poco di buono]. Poi scopre che era implicata nella sottrazione di una grande quantità di denaro, in fuga, con un complice, trovata ammazzata, redenta: voleva restituire la somma. Il detective uccide il suo assassino per legittima difesa.

Il terzo capitolo o il terzo racconto disegnato dà il titolo all’intero albo. Una  storia di delitti al limite del “neo-gotico”: due malandrini derubano una povera vedova e la sua figlioletta, uccidendole, e credendo di avere ucciso, con loro, il grande amico della bambina: un omone sordomuto soprannominato “spaventapasseri”. Questo personaggio, sopravvissuto, seppellisce la bambina fra le spighe, in un campo, mettendoci una rustica croce, e si aggira o resta là nascosto nelle fogge di un vero spaventapasseri. Ritorna in paese, di notte, riuscendo a strangolare uno dei due assassini, l’altro fugge terrorizzato dallo “spettro”.

Savarese intuisce tutto questo, cerca il sordomuto e lo convince a fuggire e a nascondersi poiché, essendosi vendicato, potrebbe incorrere a sua volta nei rigori della giustizia: “Se ti troveranno, passerai dei guai. Hai ucciso un uomo… Sì, so che era un assassino, ma questa è la legge”. “Vattene, Spaventapasseri. Io non ti ho visto”. “E incredibilmente il fantasma si è messo in piedi. Incredibilmente, come lo avesse sentito. Poi, trascinando le gambe stanche, si confonde tra le ombre. E Johnny Savarese sa già che non ne tornerà mai più”.

Nel quarto capitolo, o quarto racconto, l’ambientazione sembrerebbe il Messico o, comunque, il Sud degli Stati Uniti, in una sorta di terra di confine. Una bella vedova ma povera, una donna perbene, è costretta a portare il proprio gallo al combattimento, per guadagnare un po’ di denaro.

Un ricco malintenzionato, che già le aveva messo gli occhi addosso, cerca di sedurla portandola all’estrema necessità, facendole uccidere il gallo nel combattimento, l’unica sua fonte di sostentamento. Savarese interviene sottraendolo a un’impari lotta. Pistole. “Il gringo ha fatto bene. Il mio gallo ha perso e non vale la pena di farlo ammazzare. La lotta è finita”. Minacce dell’aspirante seduttore, poi trovato morto, intanto il gallo viene ucciso [ma lo si capisce fra “ellissi” un po’ troppo audaci e numerose].

Savarese, prima incolpato dal fratello della vittima, ma di pasta opposta, fa scoprire che si è trattato di un suicidio involontario, da ubriaco, con colpi di pistola partiti per sbaglio. Quest’ultimo personaggio, un ricco brav’uomo, privato del fratello mascalzone, si avvicina alla bella vedova e ai suoi tre figlioli, per compensazione affettiva, e per intercessione di Savarese, in un lieto finale abbastanza esplicito.

Ho accennato alle “ellissi”. Nel linguaggio del fumetto sono le parti mancanti in una sequenza di vignette o in una striscia, in una tavola, da intuire, da ricostruire nel corso della lettura e del visionamento. Un esempio: due ceffi tengono in mano un gallo e minacciano di tirargli il collo per provocare Savarese, per indurlo alla rissa e a smammare dal paese, dove non è gradito. Molto più avanti, in un balloon, il detective volontario, ex poliziotto, conversando con la bella vedova, dice: “Che pensi di fare, ora che non hai più il gallo?”. Solo a questo punto sappiamo con certezza che fine ha fatto la povera bestiola. Nessuna didascalia ce lo ha detto. Non ci sono disegni che la mostrano morta.

Una tecnica molto tipica del fumetto, per esigenze di efficacia narrativa e per limitare il numero di pagine, il numero dei disegni, la griglia imposta dagli editori. Tuttavia, in questo albo le “ellissi” sembrano prevalere sulle vignette eloquenti, a volte si fatica a seguire il filo del racconto [sia pure cercando di aguzzare l’intuito]: potrebbe essere un freno voluto per rallentare la lettura [questo genere di freni e tanti altri valgono anche per le narrazioni esclusivamente letterarie].

I disegni di Domingo Mandrafina, però, chiari, nitidi, a colori, realistici nella dose giusta, ricalcano con sobrietà i canoni più tradizionali del fumetto, privilegiando i primi piani, dando ai volti una loro dimensione psicologica, spesso espressivi e godibili anche isolandoli nelle singole vignette.

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2003




  Marco Bussagli [con testi di Franco Fossati], fumetto, Mondadori Electa, 2003. [...]

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2003-2009


Giancarlo Pavanello

tre fumetti francesi
[18 gennaio 2010]

Una libreria specializzata in fumetti, a Vincennes, alle porte di Parigi-centro. Un librino o un opuscolo di poche pagine, con 22 tavole in b/n: David B., la bombe familiale, L’Association, 2003 [collection  Patte de Mouche]. Il mondo della letteratura disegnata ridotto ai minimi termini, tutto minuscolo [il formato: cm 15 x 10,5, in tutto 24 pagine + copertina leggera].

Il nome dell’autore [uno pseudonimo?]: un’allusione a B[ande] D[essinée] [= fumetto], rovesciando le iniziali? Una collana all’insegna della “patte de mouche” [la zampetta di una mosca], ogni esemplare in vendita a 3 euro. Segno dei tempi? Penso di sì: la rete globale incombe, il modo di veicolare la creatività umana cambia, la sopravvivenza dei libri cartacei viene messa in dubbio, anche se la sua fine non sembra imminente.

La storiella raccontata è inquietante, malgrado la banalità: omini e donnine tipici dei fumetti [con nasoni lunghi, rotondi o puntuti], gente qualsiasi in una città. Misteriose bombe enormi, appoggiate al suolo in senso verticale, seguono i cittadini dalla strada a casa, li affiancano nella loro vita quotidiana, si  impongono in silenzio, la polizia esige che ognuno ne tenga in casa almeno una, vengono sistemate in stanzette dignitose [in famiglia].

Nessuno se ne pente, anzi, tutti si accorgono che le “ospiti” sono di grande aiuto [si occupano dei cani, dei bambini, accompagnano al lavoro]. Finché da un giorno all’altro scompaiono e scoppia la “guerra”, ecco le bombe dappertutto viste dalla finestra.

Le “bombe” sono alieni, immigrati [immigrate, badanti straniere?], però poi la cittadinanza deve fare i conti con il loro numero, così come i paesi occidentali e ricchi si trovano alle prese con gli “stranieri” [musulmani?]. L’autore non è esplicito, sceglie di restare al di qua di qualsiasi spiegazione, giustamente. Potrebbe essere una delle tante interpretazioni, non se ne deve dare  una lettura [razzista?] in senso unilaterale.

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Un altro fumetto “minimo”, con tavole a colori: Singeon, Burt & Pénélope, Editions Danger Public – Groupe La Martinière Le Seuil, s.d. [ma nell’ultima tavola figura 01/06/06] [Collection Miniblogs]. Il formato ancora più minuscolo: cm 12 x 7,5, in tutto 16 paginette, compresa la copertina.

Lo pseudonimo: Singeon, da “singe”, scimmia, quindi più o meno “scimmiotto”. E’ dedicato a un “loubard intergalactique”, un teppista intergalattico, in viaggio nel cosmo con parenti nel “side-car”. In questo opuscolo, l’unico che ho letto, della serie, la storiella è inconsistente: una coppia, Burt e Pénélope, lui enorme, con strane basettone che sembrano orecchie mostruose, e lei molto più minuta con due filamenti che le scendono dalle guance come strani baffi cresciuti al di sotto del punto normale. Sono vestiti e disegnati nello stile del vecchio “uomo mascherato” o del Tarzan o del Mandrake dei comics dei primi tempi.

L’eroe e l’eroina, separati dai malvagi, si cercano e si ritrovano, nel tentativo di distruggere la loro astronave distruggono anche la propria, a quanto sembra, ma di sicuro nella prossima puntata si scoprirà che l’avevano salvata e si erano salvati, non importa: secondo lei stanno per morire, secondo lui no, dichiarazione d’amore, “bisous” [bacetti], molte onomatopee, krang krang, “fuochi d’artificio”, salta tutto. Ed ecco il colpo di scena più interessante, in terza di copertina: il “miniblog” cartaceo continua su internet, password “simiesque” [scimmiesco]. L’opuscolo è in vendita a 1 euro.

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Il terzo fumetto è un’edizione più tradizionale, tavole in b/n: la grenouille noire, conscient de vacuité, CFSL INK, 2009. Il formato: 16 x 11,5, più di 300 pagine, 15 euro.

L’autore si firma con un nick-name: “la grenouille noire”, il ranocchio nero. Con convinzione e in piena consapevolezza del ruolo dell’artista, in generale, e del disegnatore, in particolare, nella nostra epoca. Come dire: anonimato. Infatti, il libro è autobiografico, traccia la storia di un giovane appassionato di fumetti, con scuole adeguate, tirocini vari, compresa un’esperienza americana nel cinema [lavoro d’équipe], con l’aspirazione a una professione remunerata e con la soddisfazione di diventare un “nome” come quelli dei maestri ammirati [ma appartengono al passato, ahimé, in un presente che sembra negare tale velleità ai principianti].

Scompare la fantascienza più o meno di maniera, tutto viene raccontato in modo “esistenziale”, con disegni in punta di pennello, neo-espressionisti ma rettificati in senso meno drammatico, ravvivati dall’uso intensivo del “retinato”, foschi o lugubri, in contrasto, invece, con il tono leggero e a volte scanzonato dell’insieme, con lo humour con cui l’autore affronta l’autobiografia critica, nelle peripezie, nelle frustrazioni, nelle speranze, nelle sconfitte e nei piccoli successi promettenti fino a una consapevolezza fondamentale, la coscienza del vuoto [una sorta di “coscienza di classe” senza un soggetto collettivo, reale]: il mondo attuale è privo di contenuti, le difficoltà di una carriera di disegnatore coincidono con un ingranaggio disumano nei rapporti umani e professionali. Restano possibili le mascherature: il capellone, il dandy inglese, il russo dell’unione sovietica, in un viaggio quotidiano privo di profondità: “una battaglia ininterrotta e senza tregua contro la mancanza di ispirazione”.

Aveva pensato alle piccole tirature, alle edizioni rare, ma con molti dubbi, fino alla scoperta delle “communautés virtuelles” [le community, i social network, i blog], una vera e propria “liberazione”. Un nuovo slancio nella coscienza epocale  di potere comunicare ad altri, e con facilità, “le immagini che riempivano la sua testa”. Il silenzio e le amarezze per i lavori saltuari,  poco pagati dalle “sanguisughe”, sembravano risibili in confronto a questi media a portata di tutti. Da allora: il computer, la creatività personale senza costrizioni, che conta molto di più dell’aspirazione alla fama. Diventato un’icona per se stesso, in primis,  il “ranocchio nero” si sente realizzato, però consapevole della necessità di lottare contro la mancanza di ispirazione, in un mondo che appiattisce tutto e tutti.

Un libro di fumetti postato in un “forum” a dieci tavole al giorno [http://CFSL.net], come l’autore aveva proposto all’editore, quindi con una pre-pubblicazione a puntate, come un feuilleton, pronto in un mese e infine stampato. Il seguito: fiction nei “Carnets de la Grenouille Noire”. Una tendenza che potrebbe continuare fino all’eliminazione del libro tradizionale [nei prossimi decenni]?

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2005


Giancarlo Pavanello

Altan, l’Italia di Cipputi, Mondadori, 2005 [a cura di Edmondo Berselli]
[prima edizione SuperMiti]

Senza sminuire i meriti di Altan, uno di quei libri che si comprano in un gazebo di remainders e libri usati, soprattutto quando si è in vacanza al mare [annotazione autobiografica, riduttiva] [en passant, solo là si trovano molti volumi negletti e illustratissimi sulle più svariate curiosità] [arti cosiddette minori, collezionismi, cronache e storie lontanissime dalla Grande Cronaca e dalla Grande Storia] [sia detto in senso positivo].

Cipputi, l’operaio comunista che, nella volontà del suo vignettista e secondo la ripartizione storica indicata dal curatore ha attraversato gli avvenimenti sociali e politici d’Italia dagli anni settanta ai giorni nostri, nel caso specifico dal 1977 al 2004, dagli “anni di piombo” all’attuale “repubblica delle banane”, passando per l’“era del cinghiale” [il periodo di Bettino Craxi, sedicente socialista più sensibile alla Democrazia Cristiana che alle forze di sinistra]. le sue battute appassionate, ma anche amare e feroci o ciniche, scambiate con i compagni di lavoro, oltre che con i quadri e con i nipotini e con un collega tedesco in vacanza al mare, a posteriori lasciano un senso di tristezza, nella consapevolezza che tutta quella storia vissuta nella fede in un’ideologia è stata effimera, il mondo era radicalmente cambiato come se gli operai critici e gli operai-massa [la classe operaia] fossero svaniti in un miraggio, in un sogno a occhi aperti.

Il “realismo pessimista” stesso stava cambiando bandiera nella società contemporanea: molti operai superstiti passati alla destra, i soggetti collettivi dispersi e spaesati, allo sbando. Nella “repubblica delle banane” [una formula di Giovanni Agnelli] l’operaio critico diventava una figura irrilevante, per fronteggiare il trionfo del neo-fascismo democratico anti-democratico, la dittatura sfumata e soft [tollerata a denti stretti dalla comunità europea di qualità]: occorrevano nuove categorie sociali non allineate nel trend a-critico [tutto TV e sazietà, disimpegno e happy hours] [non con falce e martello ma con cellulare e PC, personal computer, non “Partito Comunista”]. Insomma, alla fine, Cipputi, un personaggio patetico [forse] o rétro, e le vignette satiriche: molte incomprensibili, con il passare del tempo, bisognose di spiegazioni sui retroscena politici, sulle traduzioni sintetiche dei mass media [i giovani non sanno e non sapranno nulla?].

Quindi: questi disegni, nel genere “omini delle vignette umoristiche” [fatti in serie, supportati dalle battute, il vero centro d’interesse, ma certo, anche l’interazione fra immagine e testo], fra 10, 15, 50 anni? [per fortuna, Altan è autore di altri disegni, di altri fumetti].

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Nina, une par une, Editions de l'An 2, 2005

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2005-2006


Giancarlo Pavanello

Virginie François, la bande dessinée, Editions Scala, 2005 – Thierry Groensteen, la bande dessinée – une littérature graphique, Editions Milan, 2005 – Jean-Benoît Durand, A la découverte de la BD, Père Castor, 1998, e Père Castor Editions Flammarion, 2006

Tutti e tre divulgativi, questi volumetti, in elogio del fumetto internazionale ma con particolare riferimento alla “bande dessinée” francese, oltre ai disegnatori di fama internazionale: non a caso nei primi due figura in copertina il personaggio Corto Maltese dell’italiano Hugo Pratt.

Il primo, di Virginie François, sottolinea che il fumetto è tuttora sconosciuto dal grande pubblico, che a volte lo considera riduttivamente una “produzione editoriale destinata ai bambini” o una “forma di cultura popolare” o un semplice “mezzo di comunicazione” o un “genere letterario” o uno “stile grafico”. Va da sé che la risposta esatta è la seguente: è un’arte, un’arte sui generis, in parte visiva-grafica e in parte letteraria.

Inizia, così, un excursus sugli autori e sulle scuole che lo hanno imposto sulla scena dei mass media e delle correnti artistiche, da Tintin di Hergé, 1946, a Astérix di Goscinny e Uderzo, 1959, da Moebius e Pratt a Reiser, dal fumetto europeo a quello americano e a quello giapponese [il “manga”, che al giorno d’oggi sembra detenere la palma del successo, soprattutto fra i giovani]. Vale la pena ricordare, quindi, che questo termine risale nientemeno all’inizio dell’Ottocento, creato da Hokusai con il significato di “immagine derisoria o di poco conto, schizzo”.

L’intento resta didattico, con l’inserimento alla fine del libro di una “analisi guidata” [con alcune parole-chiave] e di varie schede biografiche sugli autori considerati principali. Infine un lessico, per invitare a impadronirsi di un linguaggio specifico: dalla parola “strip” [“striscia”] al significato di “album”, dalle “bulles” [“nuvolette” o “balloons”] al ricordo del genere “underground” [una produzione in margine dei circuiti commerciali o culturali tradizionali, iniziata negli Stati Uniti negli anni cinquanta e sessanta], e così via.

Il secondo, un libriccino di Thierry Groensteen, ricorda i volumetti scolastici in cui reperire l’essenziale su un certo tema, da approfondire con le indicazioni bibliografiche in appendice. Il taglio si discosta abbastanza dal precedente, facendo riferimento agli inizi ottocenteschi del fumetto, al ginevrino Rodolphe Töpffer [1799-1846], teorico e realizzatore di una “letteratura risolta in una serie di stampe”. Non solo: non mancano i riferimenti alle incisioni di William Hogarth [1697-1764] o addirittura, molto ma molto prima, alla Colonna Traiana a Roma [113 a.C] e alla “tappezzeria di Bayeux” [1066-1077]. Per non parlare dei codici miniati del Medio Evo, prima di Gutenberg.

A questo punto potremmo anche ricordare i graffiti dei cavernicoli, i dipinti parietali pre-istorici, esempi di fumetti ante litteram. Come si vede, una storia affascinante.

Da sottolineare, comunque, l’impegno dell’autore: una precisa messa a fuoco di alcuni nuclei sotto-tematici e di alcuni aspetti, al di là di una storia del fumetto in senso lineare e progressivo, abbastanza ridotta, per inquadrarlo soprattutto in inviti ad approfondite indagini linguistiche e/o sociologiche [il fumetto come “sogno”, “avventura”, “romanzo grafico”, “cronaca quotidiana”, “esplorazione del linguaggio”, “magia del disegno”, “arsenale dell’umorismo”, “legami con la letteratura e con il cinema”, “professione”, senza dimenticare i “lettori” e il “collezionismo”].

Il terzo, di Jean-Benoît Durand, è un manuale [con una minima parte di inquadramento storico nelle primissime pagine], per coloro che vogliano cimentarsi in questo genere artistico. Quindi, tutte le tappe e tutte le tecniche per una realizzazione concreta: come creare un racconto disegnato, da un’idea iniziale alla sceneggiatura, dalla suddivisione in vignette, in strisce e in tavole a una vera e propria costruzione grafica con un primo abbozzo [in italiano si usa la parola inglese “story-board”].

Poi l’efficacia narrativa, la psicologia dei personaggi, i preparativi [essenziale la documentazione sulle scene, sulle ambientazioni, sui costumi], fino al disegno in matita e al successivo passaggio all’inchiostrazione e alla colorazione, secondo la prassi e gli insegnamenti accademici [al giorno d’oggi, con il computer, molto viene rivoluzionato].

L’ultimo capitolo è dedicato ai consigli per farsi pubblicare dagli editori, anche se ne lascia intendere le difficoltà, se suggerisce perfino di farsi la propria casa editrice o di aprire un blog, molto più facile, come fanno già molti autori affermati: “raccontare con immagini su Internet la propria vita quotidiana, a casa propria, al lavoro, in vacanza, giorno dopo giorno”.

Il libro termina con  un quiz, per verificare da soli se si è imparata la lezione.  Con alcune informazioni utili: note e indirizzi riguardanti scuole, associazioni, musei dedicati al fumetto [fra questi ultimi: il “centre belge de la bande dessinée” di Bruxelles].

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2007




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 Giancarlo Pavanello

Liri Trevisanello e Erika De Pieri, Il mostro di Firenze, Becco Giallo, 2007.

Una “cronaca a fumetti”, secondo il sottotitolo, sul “mostro” o sui “mostri” di Firenze, così indicati nei mass media, autori di efferati delitti che hanno insanguinato molti luoghi appartati sulle colline nei dintorni della città, dal 1968 al 1985: le vittime erano coppie in macchina o in tenda, per lo più giovani, non solo italiane, preferibilmente in attività sessuale, tra festività e pre-festività e nelle notti di novilunio. Per la prima volta, l’Italia scopriva l’esistenza dei serial killer e di tutta una realtà fatta di “perversioni”, il dilagare di una criminalità disinvolta nelle piccole località di provincia in apparenza tranquille e sonnolente. Nei risvolti più inquietanti di quelle vicende: l’accanimento macabro nel ritagliare il pube e un brandello di un seno delle donne uccise.

Erano stati individuati i colpevoli, più volte, assolti più volte, un po’ tutti non privi di precedenti o di dubbia moralità, ma il gruppo che ha fatto più notizia e che ha alimentato le fantasie degli italiani è quello diventato famoso come “compagni di merende” [avevano minimizzato in questo modo le loro incursioni in cerca di coppiette]: Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Il primo, soprattutto, il “contadino di Mercatale”, settantenne con un passato di omicida e di stupratore delle figlie, era diventato un vero e proprio “personaggio mediatico”.

Un po’ tutti i personaggi coinvolti hanno trovato una fine violenta o quantomeno misteriosa, compreso Pietro Pacciani, per cui, restando la vicenda non del tutto chiarita, ha cominciato a farsi strada l’ipotesi che ci fossero altri mostri da scoprire, in libertà, e che gli assassini uccidessero per qualche forma di rito esoterico, in un giro di sette segrete, di orge e di messe nere, con tutta probabilità perfino a pagamento per conto di qualcuno [gli omicidi erano considerati “lavori”]: potrebbe essere stato un medico, Francesco Narducci, la cui presunta morte per annegamento resta un mistero [si ipotizza perfino che sia solo scomparso dalla circolazione].

Il fumetto, di un realismo sintetico e a volte appena abbozzato, con tenui colori grigi in varie sfumature, presenta, per forza di cose, alcuni protagonisti e alcuni momenti-chiave, compreso gli inquirenti, in particolare la SAM, la Squadra Anti Mostro, creata ad hoc dalla polizia e dai carabinieri, soprattutto nella persona di Michele Giuttari dal 1995.

Un po’ a sorpresa, però, la combriccola dei “compagni di merende” non viene raccontata dal protagonista che ha stimolato di più la curiosità degli italiani per quella cronaca nera, Pietro Pacciani, ma soprattutto da Giancarlo Lotti, presentato come una persona ignorante e primitiva, non privo di furbizia, colui che ha cominciato a “sfasciare” l’omertà che teneva unito il “branco”: “rapporti complicati per menti così elementari”.

Infatti, le autrici danno uno strano rilievo [nell’economia del fumetto] alla sua omosessualità [negata o non dichiarata], con tanto di descrizione accurata di una sodomizzazione a cui Pietro Pacciani lo avrebbe sottoposto per soggiogarlo psicologicamente, per ricattarlo e per rafforzare la loro complicità nei delitti.

Nel balloon di una vignetta con gli investigatori: “Il quadro è questo: Lotti ha tendenze omosessuali. Pacciani è un ipersessuato, violenta le figlie per anni. Vanni è un iposessuato, violento, forse sadico…”.

Il libro, che in varie riprese ricorda le povere vittime “barbaramente uccise, senza un motivo, senza un perché”, termina con una cronistoria dal 1968 al 2006, approfondita da una nota di Francesca Beghin, Mostro, mostri, e da una bibliografia con segnalazioni, inoltre, di interventi e inchieste in TV, per radio, nel cinema, in precedenti fumetti e in internet.

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2008






                                                Giancarlo Pavanello

Il secolo del fumetto - lo spettacolo a strisce nella società italiana 1908-2008, a cura di Sergio Brancato, Tunué,  2008

[contributi di Alberto Abruzzese, Daniele Barbieri, Sergio Brancato, Stefano Cristante, Adolfo Fattori, Enrico Fornaroli, Gino Frezza, Fabio Gadducci, Marco Pellitteri, Luca Raffaelli, Matteo Stefanelli]

Tanti studi, una vasta bibliografia sulle origini del fumetto, a livello mondiale, nato negli Stati Uniti sul finire del XIX secolo [1894] con il personaggio Yellow Kid, o in Europa addirittura con Rodolphe Töpffer che nel 1833 pubblica Histoire de Monsieur Jabot, una sequenza di vignette con poche righe di testo, senza peraltro dimenticare che le illustrazioni e le stampe popolari hanno costituito anche nei secoli precedenti una notevole  pratica nella  comunicazione grafica.


[Potremmo aggiungere: le miniature dei codici miniati e tantissimi esempi di pre-fumetti perfino nella pittura e in altri manufatti di ogni epoca e in ogni cultura. Di recente ho ammirato una tavola nel Museo Castelvecchio di Verona, di un pittore anonimo della fine del XIV secolo, “trenta storie della Bibbia”, straordinaria la disposizione dei riquadri che sintetizzano gli episodi, allineati in sequenze di sei “vignette” per ogni “striscia”, cinque “strisce” mute a formare una “tavola”.]

Viene citato anche un libro di Lancelot Hogben, Dalla pittura delle caverne ai fumetti, Mondadori, 1952, ma giustamente si dà rilievo, in linea di massima allo specifico della “letteratura disegnata” [sembrerebbe, questa, una formula di Hugo Pratt], facendola iniziare, in Italia, con il “Corriere dei Piccoli” [1908-1995], che è stato una filiazione del “Corriere della Sera”. Tuttavia, anche in questo caso c’è stato da discutere fra gli studiosi se in questa “arte sequenziale” o in queste “narrazioni grafico-verbali” l’elemento linguistico del “balloon” o della “nuvoletta” [che ha dato il nome al nuovo genere d’arte] sia o non sia sostituibile dalla didascalia, usata nelle origini europee e italiane del fumetto].

Un problema inattuale, quando moltissime sperimentazioni sono state fatte, fino all’esaurimento, si direbbe. Più drammatiche sembrano, invece, altre consapevolezze, accennate in vari punti dei saggi del libro: la disaffezione dei giovani verso il fumetto che, in passato, li distoglieva dalle letture ritenute più serie, e soprattutto l’avvento spiazzante dei video-giochi, di internet e dei blog.

Gli autori dei saggi raccolti in questo volume, in prevalenza sociologi e professori, ma non solo, tentano di “esprimersi sullo stato del fumetto nella nostra società”, come recita la nota in quarta di copertina, per costruirne un “tessuto teorico”, scegliendo [come appare evidente] di “dialogare con gli altri linguaggi dell’industria culturale” per contribuire a rinnovare la “cultura dei comics” [quindi, notiamo, escludendo qualsiasi riferimento alla vasta produzione della cosiddetta “controcultura” e della “contro-informazione” degli anni sessanta e settanta, ormai fuori-moda].

Il titolo, in cui si trova la parola “spettacolo”, “lo spettacolo a strisce”, va spiegato, in parte, con la dichiarazione contenuta in un saggio del curatore stesso: “il fumetto sta all’illustrazione come il cinema sta alla fotografia”.

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Giancarlo Pavanello

GIPI, la mia vita disegnata male, Coconino Press (Fusi orari), 2008


Nuove generazioni di illustratori e fumettisti. Nuovi temi. Nuovi contenuti. Il titolo sembra alludere all’esistenza condotta dall’autore in gioventù e potrebbe suonare come “la mia vita imbastita male”, scombinata, un po’ balorda e un po’ sfortunata, almeno fino a quando la strada diventa maestra, sulla via del fumetto. Un’autobiografia a flash, a spezzoni, a periodi, dall’infanzia alla maturità, con drammi, viaggi, amici, rock, droga, problemi di salute, medici strani, vita quotidiana e sex, ricordi e fantasie, sequenze a colori con avventure di pirati del Settecento, fra “dramma e comicità”, come recita una nota in quarta di copertina: “[…] tutte quelle cose che avevano disegnato, spesso male, la mia esistenziucola”.

Non manca la conoscenza dei meccanismi dell’editoria: “amare il fumetto” diventa “odiare il fumetto”, con una variante [“odiare”] che semi-cancella “amare”. O, più sarcastica, a proposito di un suo problema fisico, l’annotazione seguente: “Almeno, in quegli anni quella malattia veniva considerata tale: contagiosa e mortale. Ora le cose sono un po’ cambiate. E comunque no: non è la formidabile AIDS. Devo dirlo subito, anche se questa rivelazione avrà un effetto negativo sul volume di vendite di questo libercolo. Non è l’AIDS che mi hanno trovato”.

Ha capito tutto [come si dice]: occorrono temi attuali, tinte forti, giovanilismo, per attirare l’attenzione un po’ sadica degli editori che devono studiare come catturare l’interesse dei lettori.

Il maledettismo: “Tutte le stelle del rock avevano una caratteristica in comune, un pregio: erano morti”. Ma, per fortuna, l’autore del fumetto è stato più saggio, e si è fatto curare, sopravvivendo abbastanza bene fino alla dichiarazione conclusiva, che fa sperare bene [ma con ambiguità], quando il protagonista, ormai maturo, si trova in un métro affollato, guardando la gente dall’aria non tanto felice: “C’era amore dappertutto”.

il linguaggio appartiene a questi ultimi decenni, i contenuti vi si adeguano, e il fumetto è scritto in modo estemporaneo, senza partire da una sceneggiatura [sembrerebbe], con immediatezza. infatti, i disegni sono francamente bruttini [nel senso che l’autore li butta giù in punta di penna o di pennino, volutamente a-tecnici, e quindi con una tecnica peculiare], alternandoli al testo letterario, come appunti verbo-visivi [però lontanissimi anni-luce dalle opere catalogate con tale formula, più specificamente definite “poesia visiva”] [devo spiegarmi così, altrimenti chi non avesse il libro sottomano potrebbe essere indotto alla confusione]

Nota Bene: con “disegni bruttini” non intendo criticare in senso negativo, tutt’altro, definiti così se paragonati ai disegni accademici o “di qualità” del passato e del presente. L’autore lo sa, se ha pensato a un titolo da interpretare in maniera non univoca. Del resto, questa non è neppure una “critica”, da cui mi dissocio, non è niente, bu-u-u, roba vecchia!

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Giancarlo Pavanello

Sergio Toppi, Davide e Golia, Studio Michelangelo Edizioni, 2008


Dieci disegni di un illustratore d’altri tempi, dagli anni cinquanta, detto in senso positivo, dal curriculum prestigioso: variazioni sul tema “Davide e Golia”, a piena pagina, in b/n. “Testi a cura di Fabrizio Lo Bianco”: non sembra chiaro se sono, anche, le didascalie [alcune del tutto necessarie per la comprensione delle intenzionalità figurative].

Una nota iniziale ricorda il “fatto” biblico: il piccolo Davide, inerme ma provvisto di intelligenza, con un sasso e una fionda, colpisce il gigante filisteo che cade, così può ucciderlo con la sua stessa spada.

Il primo disegno, riprodotto in copertina e sul frontespizio, rappresenta Davide e Golia classici, gli altri sono personaggi traslati, per così dire, argutamente rappresentati: un bambino con retino per farfalle dà del démodé a un enorme insetto vanitoso; un omino chiede a un mostruoso soldato con mitra di stare fermo per un attimo, per dargli una martellata sul mignolo; un minuscolo picchio corrode il palo che sostiene uno spaventapasseri; un seduttore conquista una enorme vamp con una rosa “aulentissima”; un cittadino lillipuziano taglia il filo che mette in collegamento un gigantesco uomo politico con molti microfoni, impedendogli l’amplificamento della sua seduzione: “E’ dovere del governo nel prossimo futuro… in un’ottica di sviluppo… dare ampia risonanza…”. E così via.

In una brevissima nota sul risvolto di copertina, l’autore stesso parla di “ironia” e “sarcasmo”, dichiarandosi di “mediocre statura”, ma la valenza politica  dell’insieme viene sottolineata da una pagina di Sergio Staino, che sottrae Davide e Golia all’aneddoto biblico per darne un’interpretazione più universale, come del resto siamo abituati a pensare, essendo i due personaggi una chiara metafora della lotta fra il debole e il forte, fra il piccolo e il grande, fra la ragione e la brutalità. Un mito di tutti i tempi che dà soddisfazione al giusto contro l’ingiusto, alla speranza contro la disperazione.

[Una curiosità: ho letto questo libro in tre o quattro fermate di métro, da Lotto verso Cadorna, a Milano.]

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2009


Giancarlo Pavanello

Il GrifoIl fumetto è arteStoria di una rivista, Edizioni Di, 2009

Una rivista, “Il Grifo”, dedicata al fumetto e, in misura minore e in modo trasversale, all’illustrazione [per lo più di autori di fumetti], con brevi testi letterari di raccordo, 36 numeri, dal 1991 al 1995, con l’ambizione di pubblicare i maggiori autori di successo ma non solo. Molto rilievo alle copertine e alle quarte di copertina. Ripescaggi e inediti, come il “librone dei sogni” di Federico Fellini, che da giovane era stato un fumettista, una passione mai abbandonata. Perfino alcune vignette di Pier Paolo Pasolini, 1966, in preparazione al terzo episodio del film Le Streghe: La Terra vista dalla Luna.

Il direttore della rivista era Vincenzo Mollica e l’attenzione al mondo del cinema e alla musica leggera è evidente e tutt’altro che saltuaria, come se si volesse inserire il tutto in una più collaudata ufficialità in grado di attrarre i lettori [ma potrebbe essere una mia impressione sbagliata o riduttiva]: Totò, Roberto Benigni, Nanni Moretti, Francesco De Gregori, Franco Battiato, Francesco Guccini, Lucio Dalla.

Il libro, Il Grifo – Il fumetto è arte – Storia di una rivista, Edizioni Di, 2009, è il catalogo della mostra omonima, a cura di Vincenzo Mollica e Mauro Paganelli, Napoli, Castel dell’Ovo, 18 dicembre 2009 – 10 gennaio 2010. Mi sto avvicinando a questo mondo di “arte popolare” [in positivo] da [relativamente] poco tempo e quindi preferisco limitarmi a citare, fra i numerosi autori antologizzati, quelli indicati nel sottotitolo [“da Federico Fellini a Milo Manara – da Hugo Pratt a Guido Crepax”], senza entrare nel merito dei loro variegati talenti, della loro bravura, al di là delle mie preferenze personali. L’avvicinarmi al volume è stato dettato esclusivamente da una volontà di orientamento, per scoprire qualche strada maestra in questo genere, definito “letteratura disegnata” da Hugo Pratt, ossia sperando di diventare un fan di alcuni personaggi grafici e dei loro ideatori-realizzatori.

Con convinzione, resto ancorato a qualche considerazione e a qualche annotazione in generale. Il dibattito su questo genere letterario-artistico, in Italia, ha una storia di non lunga data: Umberto Eco ricorda che solo nel 1965 è stato possibile organizzare a Bordighera il primo salone internazionale del fumetto, sulla scia della creazione, in Francia, da parte di Francis Lacassin e Alain Resnais, del “Centre d’études des littératures d’expression graphique”. Però preceduto, in sede critica, da Carlo Della Corte, I fumetti, Mondadori, 1961. E tutto era iniziato, grosso modo, con il “Corriere dei Piccoli” nel 1908.

Lo slogan di Vincenzo Mollica, “il fumetto è arte”, accompagna ogni quarta di copertina della rivista, e figura anche nel sottotitolo del volume. Lo trovo un po’ semplicistico: sarebbe come affermare che la pittura è un’arte, il cinema è un’arte, e così via, ossia, tautologicamente, “Sanremo è Sanremo”. In tutta evidenza, era ancora una fase in cui esistevano gli oppositori con le loro  affermazioni contrarie, con l’accusa di trovarsi di fronte, al massimo, a un’arte minore. Giulio Riccio, in una introduzione, ricorda: “[i detrattori] […] il cui argomento principe è che ‘chi parla di fumetti ha eliminato ogni differenza tra Dante e Topolino’ (U. Eco)”.

Molti anni sono passati da quando la semiologia sembra essere passata di moda. Per fortuna, la differenza fra “esprit de géométrie” e “esprit de finesse”, non inconciliabili [anzi, auspicabilmente complementari], nel linguaggio di Blaise Pascal, acquista una nuova linfa, con la pulsione ancora viva alla critica sfumata, ai distinguo, alle impressioni pertinenti, alla sensibilità interpretativa, al giudizio non infallibile ma acuto.

Per dire che, accettato l’assunto secondo cui il fumetto è un’arte, bisognerebbe procedere a una ricognizione a 360 gradi su tutto il ventesimo secolo, o secondo altri criteri, per non esaltare in modo arbitrario un disegnatore a scapito di un altro, un post-post-post aspirante futurista al posto di un neo-espressionista, un facitore di immagini piacevoli ma di scarsa qualità o di qualità banale e non un autore meno ammirato dalla maggioranza ma più complesso e profondo, e così via. Insomma: vediamo caso per caso chi è bravo e chi lo è meno. Ma senza limitarci a un brevissimo periodo di fine Novecento.

Cerchiamo di conoscere meglio gli illustratori e i fumettisti della prima metà del secolo e confrontiamoli con quelli successivi, rimescolando le carte. Inoltre, ha smesso di essere convincente la tendenza a porre sullo stesso piano opere impegnate e di grande spessore e quelle cosiddette “popolari”. Senza pregiudizi né culturali né ideologici, tuttavia, solo per valutarle con pertinenza, al di là di qualsiasi forma di terrorismo pseudo-intellettuale, con “esprit de finesse”, appunto.

Tutte le arti vanno di pari passo, dalla poesia alla pittura, dalla narrativa al cinema, dalla musica al teatro. Così, restando a una conclusione riguardante le illustrazioni e i comics, si ha l’impressione che, a un certo punto, il realismo più o meno socialista o lirico-esistenziale o pop art, rifiutato come improponibile nei principali filoni delle avanguardie artistiche, abbia ritrovato un re-impiego nella cosiddetta  “letteratura disegnata”. Come se fosse un personaggio spinto fuori dalla porta di un appartamento al secondo piano e che trova una rivincita mettendo una scala a pioli sul muro di una casa per tentare di entrarci dalla finestra.

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Andrea Leggeri, fumetto on line, Coniglio Editore, 2009. [...]

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Thomas Mathieu, le type de la photo, l’Employé du Moi, 2009. Un giovane barbuto e la sua ragazza vanno in giro per la città fotografando di tutto, iniziando dalle cose più banali e continuando su quella strada, a un certo punto la loro attenzione è catturata da un tipo in apparenza losco [ne ipotizzano le attività, al di là dell’immagine], lo seguono fino a quando entra a casa dell’amante, osservandoli dalla finestra si capisce che si accingono a fare sesso, clic clic clic, ma quando l’omicida esce tutto insanguinato [finalmente un soggetto eccezionale] è finita la pellicola, frustrazione, fiasco. Una storiella di poche pagine scritta e disegnata in 24 ore per ribadire la superiorità della grafica creativa sulla fotografia.

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2010



Christian Guémy [alias C215] [con numerosi disegnatori], C215, [senza nome dell'editore], s.d. [2010?] [2 volumi]

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Giancarlo Pavanello

Lionel Koechlin, le football punk – mémoires d’Eugène Claquot martyr du ballon rond, Alain Beaulet éditeur, 2010, tiratura: 1000 esemplari numerati

Un libriccino di 24 pagine con una o due vignette b/n per pagina, alcune nuvolette ma prevalgono le didascalie narrative. I disegni, molto carini, ricordano le figure stilizzate anni venti e trenta, un po’ futuriste del periodo fra le due guerre e un po’ Fortunato Depero. Una edizioncina che, forse, riconferma l’ipotesi della crisi del fumetto cartaceo [a favore di quello “on line”], se indica un ritorno alle tirature limitate e numerate per gli appassionati di rarità.

Una storiella quasi inconsistente, brevissima, giocata sull’ironia e sull’umorismo, come viene indicato nel titolo: il calcio punk, le memorie di un personaggio,  martire di uno sport per il quale il pallone viene definito “rotondo”, con un pleonasmo comico.

Il raccontino inizia il 6 giugno, una data che potrebbe avere un suo significato nel mondo del calcio, ma corrisponde, comunque, allo sbarco degli alleati in Normandia nel 1944, il che con tutta probabilità non c’entra niente. Un signore con l’anello al naso,  con un pallone in mano, ogni anno si mette a cercare un punk: “Quei tipi stazionano spesso nel métro in cui il futuro è fatalmente sotterraneo”. E questo è l’incipit.

Ma con la seconda vignetta ci mettiamo all’erta, c’è una annotazione abbastanza acida: “I punk, come diceva Mitterrand parlando dei primi ministri, se ne trovano sempre!”. Ce n’è abbastanza per intuire che tutto va letto in chiave allusiva. Infatti: “Se gli si regalano lamette Gillette vintage o spille da balia sono pronti a tutto”. Poi: “Non indietreggiano di fronte alla sporcizia… Al contrario!”.

Sì, quando leggiamo “punk” dobbiamo pensare anche alla vita sociale e alla politica. Comunque, i ricordi dell’ambiente del calcio del protagonista [l’io narrante] continuano, pretesti per precise stilettate: era un campione ma un eccesso di onestà, un gol con fallo di mano, che l’arbitro non aveva visto, poi denunciato da lui stesso e annullato, lo aveva fatto cadere in disgrazia, troppo ingenuo, troppo corretto. Conseguenze: uno schiaffo dell’allenatore, la domanda della Legione d’Onore respinta, annunciata dall’autista del ministro dello sport. Una carriera stroncata.

Passano gli anni e il nostro eroe continua a consolarsi con una vicina disponibile, filosofeggiando: “Fate sport in camera da letto… C’è questo in comune fra i punk e i vecchi calciatori!”. E la cosa è ribadita mentre lo si vede ballare con la vicina in pazza allegria. Insomma, “il calcio punk” corrisponde al rifiuto di entrare in una carriera, qualsiasi carriera, dove trionfano il compromesso e la disonestà, contro la rettitudine morale, contrariamente a quanto insegnano i genitori, la maestra e il parroco. Una versione riveduta e corretta dello slogan anni sessanta: “fate l’amore… non fate la guerra”.

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Yoshiko Watanabe – Marco Vignati, corso di manga [guida pratica al fumetto giapponese], Dino Audino editore, 2010. La parola “manga”, in giapponese, suona esotica ma indica quello che in occidente è definito “fumetto”, letteralmente “un disegno che fa ridere”, con una sua storia e una sua evoluzione che risale al “medio-evo”. Una sostanziale differenza fra “manga” e “comics”: i primi, come nella tradizione nipponica, puntano sul disegno più che sulla parola, ne deriva una espressività esagerata, al limite della caricatura, poiché i personaggi devono esprimersi soprattutto con lo sguardo e con la gestualità [ecco il senso dei grandi occhi che caratterizzano i loro volti e dell'irrilevanza di una fedeltà realistica all'anatomia]. L'importanza data alla spontaneità del flusso narrativo, a scapito di una sceneggiatura troppo rigida. Il montaggio non schematico delle vignette, varie per forma e dimensione. Un genere che ha avuto una enorme fortuna in tutto il mondo. Inoltre, altre considerazioni vanno tenute presenti: questi fumetti sono dapprima pubblicati in riviste e solo se riscuotono un grande successo fra i lettori accedono alla produzione in volume per il mercato librario. Una sorta di spietata selezione attitudinale. Un dubbio [allora]: e gli altri manga, quelli più difficili, quelli più raffinati, quelli “di nicchia” per vocazione élitaria? Siamo destinati a non conoscerli? Annotazioni da sociologia dell'editoria, ora sempre più terremotata dalla crisi che la investe per opera della “rete”.
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Giancarlo Pavanello

Ivo Milazzo e Fabrizio Càlzia, Uomo Faber, La Repubblica – L’Espresso, 2010

La vita di Fabrizio De André a fumetti. Nella “presentazione”, Vincenzo Mollica definisce questo libro “un vero capolavoro di letteratura disegnata”. La sceneggiatura di Fabrizio Càlzia e i disegni e acquarelli di Ivo Milazzo tracciano alcuni momenti che hanno segnato l’esistenza del cantautore, generalmente considerato un “poeta”: “Bicio” in Sardegna si riposa o è appisolato, steso sotto un albero, vita quotidiana e ricordi, ripensa al padre, poi ritorna in Liguria e, con spinta nostalgica, va a trovare un’amica d’infanzia, in campagna, il ragazzo difficile “tutto parolacce e bestemmie [ma che poi ha chiamato Cristiano il figlio]  vorrebbe riparlare con il padre morto da tanti anni, il suo “paradiso perduto” era là. Diventato un cantautore famoso, che nel suo pubblico conserva la gente dei vicoli [dei “carroggi”] ha conservato un senso genuino della vita e dei rapporti umani, restando un vero “uomo” [come indica il titolo].

La notte trascorsa in quella casa dà inizio all’incipit dei ricordi e degli aneddoti in flash back: il fratello morto, il padre morto, il liceale ribelle e insofferente dell’ipocrisia, l’incontro con il parroco da lui condotto nella “città dolente” [intorno a Via del Campo, il centro storico di Genova, abitata e vissuta dalle creature tanto vituperate dai benpensanti e identificate con la lettera “M” [mignotta o peggio], travestiti e aspiranti trans, compreso un giovane che si sente donna, vestito da suora, e che vorrebbe essere suora in Africa: “Cristo stava per strada” dice il giovanissimo anarchico “in mezzo alla gente, lontano dai templi”. Intanto, l’insistenza nel disegnarlo intento a fumare sigarette introduce a poco a poco la sua fine prematura: una storia da non ridurre a un racconto aneddotico, giustamente in parte immaginato, tanto più che una didascalia conclusiva ricorda una dichiarazione di Fabrizio De André: “Io appartengo soprattutto a me stesso e non mi va che mi si facciano i fumetti intorno, non lo sopporto…”.

Il libro riporta una brevissima nota di Don Andrea Gallo, nella quale ricorda alcune parole famose del cantautore: “Dai diamanti non nasce niente”. Insomma, la sua poetica va riportata a quella dei “fiori del male” di Charles Baudelaire: i fiori nascono dal “letame”, ritenuto tale dal perbenismo ipocrita.

Oltre all’atmosfera malinconica dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Ma viene ricordato anche Riccardo Mannerini, i cui versi hanno svezzato il giovane Faber.

Una breve bibliografia ragionata completa il volume, non esaustiva ma che rimanda ad altre bibliografie, comprese quelle che si possono trovare in internet [ormai tutto ruota sempre più nella rete]. Senza trascurare un abbozzo di  discografia [nel senso che,  sterminata, non è stato possibile inserirla nell’economia di un fumetto], con qualche segnalazione, p. e. l’iniziativa di “Repubblica” e “L’Espresso”, presentata come l’opera di un “genio disobbediente”: “Fabrizio De André – L’opera completa”, 2009.

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Giancarlo Pavanello

Christian Mirra, Quella notte alla Diaz – Una cronaca del G8 a Genova, Guanda Graphic, 2010 [seconda edizione]

La prima tavola: un giovane ferito e dolorante su un letto d'ospedale, mentre riprende coscienza, piantonato da un poliziotto. Poi tutto il racconto passato alla storia come i “fatti del G8 di Genova del 2001” in flash-back, narrato a fumetti in prima persona, cominciando dalla vita spensierata di un gruppo di amici, la cui unica preoccupazione sono i progetti di viaggi, in contatto fra coetanei dell'UE, con la posta elettronica.

Vedendo in TV le prime violenze dei black bloc e soprattutto la morte di un ragazzo, causata da un carabiniere, secondo l'evidenza, decidono di recarsi a Genova, prima di continuare le vacanze, per partecipare alla manifestazione del 21 luglio, con “la varietà delle bandiere presenti” e con “ideologie differenti”. Alla ricerca di un “internet point”, vengono consigliati di recarsi alla “scuola Diaz”, diventato “il centro di comunicazione del social forum”, piena di giovani di varie nazionalità con cui socializzare e dove possono pernottare, con i sacchi a pelo, del tutto ignari della “notte cilena” che li attende.

Il clou di “quella notte alla Diaz”. Il capitolo inizia con una inquietante citazione di Francesco Cossiga, senatore a vita ed ex Presidente della Repubblica, che introduce le cruente vignette dell'autore e che completano le sconvolgenti immagini-video viste tante volte in TV: “[Il ministro dell'Interno] dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno, ovvero […] infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città... Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”.

Con il pretesto di una “perquisizione”, i pacifici e inermi convenuti vengono attaccati in piena notte dai poliziotti, a botte e manganellate, con insulti e soprusi d'ogni genere, pestati a sangue. Lamenti e pianti in tutta la palestra, da dormitorio a stanza delle torture.

Il giorno seguente, l'autore, che racconta questa irruzione definita “kafkiana”, si ritrova su un letto d'ospedale, sfigurato, con le mani gonfie, quasi cieco [per fortuna momentaneamente]. Una vicenda collettiva descritta come un incubo personale: la visita di un ispettore della DIGOS, la paura della tortura e della prigione, altri fatti più violenti riportati da un altro ragazzo, conciato peggio, la visita dei genitori, l'invalidazione dell'arresto, la scarcerazione, le notizie distorte, come quella secondo cui 61 dei 92 giovani trovati nella “scuola Diaz” avevano “pregresse contusioni e ferite”, il ritorno nella propria città, la salute minacciata [la vista, in primis, ma anche le conseguenze psicologiche], la ricerca di notizie sugli accadimenti di Genova reperiti in “rete” [come le atrocità compiute dalla polizia nella caserma di Bolzaneto: umiliazioni, torture].

Le due “molotov” ritrovate nella “scuola Diaz”, un pretesto per accusare tutti i presenti di “associazione a delinquere”, poi risultate “finte”: “prove” falsificate dalla polizia. Dopo due anni, finalmente vengono assolti “tutti i no-global”: “Il castello di denunce architettate contro i manifestanti, arrestati nel corso del famigerato blitz del G8, crolla in maniera definitiva”.

Ma l'epilogo resta amaro: il mistero mai del tutto chiarito sulla morte del giovane Carlo Giuliani, i depistaggi, 30 assoluzioni e 15 condanne a pene lievi per poliziotti coinvolti nelle torture di Bolzaneto: “Nelle motivazioni della sentenza, i giudici lamentano la mancanza in Italia del reato di tortura, che li ha costretti a limitare le pene”. Per i fatti di Genova, 25 manifestanti condannati per “devastazione e saccheggio”, ma con due poliziotti rinviati a giudizio per “falsa testimonianza”: “Diaz – assolti i vertici. E l'aula grida 'vergogna'. E così si chiude quella che è stata definita 'la pagina più nera della democrazia italiana'”.

In ogni caso, tra indulto e prescrizione, nessun poliziotto finirà in prigione”. Anzi, così va il mondo: “Mentre il processo Diaz faceva il suo corso, gli imputati hanno avuto una strabiliante carriera ai vertici della polizia di stato”.

Un fumetto autobiografico come testimonianza di un evento pubblico, da cui trapela una critica alle storture della democrazia non completamente realizzata, che ricorda quella degli anni settanta, quella della contro-informazione, ma con personaggi immuni dal protagonismo, in una indignazione corale. Anche i disegni, con il loro tratteggio essenziale e immediato, rimanda a tanti giornalini underground di quegli anni, con forza espressiva.

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Giancarlo Pavanello

NAVO, la bande pas dessinée, VRAOUM!, 2010


Un albo coloratissimo “per coloro che ritengono che, nei fumetti, il disegno è un po' sopravvalutato”: questa dichiarazione paradossale in quarta di copertina indica lo stile scherzoso di tutto il volumetto. Una presa di posizione che si inserisce nella smania contemporanea, soprattutto metropolitana, e francese, giovanilistica, di rendere tutto superato, invecchiato, mese dopo mese, anno dopo anno. Una novità scaccia l'altra in un vorticoso girare a vuoto in un mondo “futurista” [nel senso generico del termine, non tanto lusinghiero].

Se il genere “letteratura disegnata” segna il passo, resa desueta dall'avvento di internet e dei blog, qualcuno deve cercare di portarlo a compimento, dire l'ultima parola: nel caso in questione un fumetto fatto di strisce, di vignette e di moltissime nuvolette [secondo le regole accademiche sia pure rimodernate] ma senza immagini figurative, ossia senza disegni di personaggi e di scene. Insomma, poco più che una serie di dialoghi che ricordano, appunto, il “teatro sintetico” futurista [con un linguaggio del giorno d'oggi].

Il titolo lo sottolinea con chiarezza: stiamo per leggere e osservare l'enfasi visiva di una serie di battute molto spesso imbastite sul gioco di parole [tipico della lingua francese che vi si presta a meraviglia, molto comune fra la popolazione più vivace]: “la bande dessinée” [“il fumetto”, letteralmente “la striscia disegnata”], diventa “la bande pas dessinée” [“il fumetto non disegnato”, “la striscia disegnata non disegnata”]. E: “plus qu'un concept, un pas concept” [“più che un concetto, un non-concetto”].

E così via nella direzione dell'anti-fumetto, come ci sono e ci sono stati l'anti-letteratura [in Italia già al tempo della “scapigliatura”, nell'Ottocento], l'anti-arte [soprattutto con il “dada” europeo del primo Novecento], l'anti-tutto e l'anti-contrario-di-tutto, ricordando, inoltre, che la Francia è il paese di Raymond Queneau e dell'OULIPO [acronimo di “OUvroir de LIttérature POtentielle”, “laboratorio di letteratura potenziale”, opere letterarie scritte dandosi regole personali, per lo più assurde, in cui proprio i vincoli e le restrizioni permettono un'infinità di realizzazioni fresche e inedite], iniziando nel 1960.

Comunque, qualcosa emerge sul piano del contenuto, se non proprio della narrazione, inesistente, sopraffatta da una serie di dialoghetti in tre vignette. Sembrerebbe uno spaccato agrodolce della vita dei giovani d'oggi e dei loro rapporti effimeri con gli interlocutori, compresi i parenti, il proprio cane, le ragazze: va da sé che nemmeno gli amori sono duraturi, in una società scollata, priva di punti di riferimento culturali e politici, fra tanti segni d'interpunzione, onomatopee, domande, esclamazioni, deformazioni verbali, tipiche della parlata del tempo presente [negli anni settanta si diceva “franglais”, un misto di francese e inglese, come anche “itangliano”, ma dopo internet le lingue nazionali si sono ulteriormente imbarbarite, nel bene e nel male].

Scartato il racconto lineare, dunque, occorrono alcuni nuclei tematici [o, meglio, non-tematici] da racchiudere in tre vignette: i “personaggi” [inutile disegnarli, sono già stati disegnati tutti, “piovre che ballano il tip-tap, ballerine nude in pattini a rotelle, otto fratelli gemelli che cantano in coro, e così via buffoneggiando], l'“aids” [una “enorme palla piena di aculei”], il “senso della vita” [“è da quella parte”].

Un po' di volgarità giovanilistica, molto cinismo giovanilistico, molte freddure giovanilistiche [amorali]: il “malodore” [“cacciare i barboni con una frusta è come cercare di annegare le sirene...”], un “regalo” [un cagnolino in una scatola, nella terza vignetta della striscia ne veniamo a conoscere la sorte: “avresti dovuto farci qualche buco”], il “politicamente corretto” [“la storia di un ebreo tetraplegico che alcuni bambini travestono da nazista il giorno di Natale”], la “logica” [“ho visto l'uomo invisibile... avevo gli occhi chiusi”], il “razzista” [“qualcuno mi ha dato del razzista... era un cinese figlio di puttana”], l'“alcool” [“ho un problema con l'alcool... è troppo caro”], la “proposta” [se un tipo ti dà un milione di dollari per andare a letto con la tua ragazza... cosa ne dici... dico no... perché la conosco... la mattina dopo quello verrebbe a reclamare i 999.990 dollari che gli devo!”], l'“affare” [la girl-friend vuole lasciare il non-protagonista e gli chiede: “ma perché hai voluto uscire con me?”, la risposta: “perché eri gratuita!”], l'“esperienza” [i “no-life” potranno avere figli... finalmente sono riuscito a innestare le ovaie nei fazzoletti di carta!”. Di questo passo, sarebbe brevissimo il passaggio alle barzellette non-disegnate.

Un chiarimento: ignoro tutto dell'autore, ignoro se ci sia una sua adesione [non-filosofica] a questa “situazione”, a questo spaccato della società e del linguaggio comune. Voglio sperare che, nelle sue intenzionalità, ci sia stata esclusivamente una visione oggettiva, l'osservazione della realtà.

Come fa intendere la penultima pagina, in stampa [quasi] normale, questo “libro-concetto” potrebbe avere un seguito in un “fumetto non disegnato non disegnato”, con nuove trovate: una “saga”, quindi, e chissà se lo pseudonimo “NAVO” ha intuito che, a parte l'arguzia grafica potenzialmente rinnovabile con la quale si auspica una continuazione, sarebbe meglio di no o un non-sì.


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Giancarlo Pavanello

Davide Pascutti, Fausto Coppi – l'uomo e il campione, Becco Giallo, 2010


Vediamo subito Biagio Cavanna, il massaggiatore cieco, “il massaggiatore delle tenebre”, lo scopritore del giovanissimo Fausto Coppi [1919-1960], mentre gli prodiga alcuni consigli, se vuole diventare un campione, cosciente che lo diventerà: “attento a ciò che mangi... pedala più che puoi... non andare a donne... la solitudine è la tua forza... solo con te stesso... solo contro te stesso”.

Dopo l'antefatto, il fumetto inizia con il famosissimo Giro d'Italia del 1949, uno spaccato di questo solo anno [con qualche flashback onirico], quando il popolo dei tifosi, per non dire tutta l'Italia, parteggia in modo esasperato per Gino Bartali [cattolico e sanguigno] o per Fausto Coppi [laico, malinconico, schivo e taciturno], ritenuti rivali, in realtà amici, come dimostrano tanti episodi.

La mitica tappa Cuneo-Pinerolo: due ragazzini fanno i preparativi per il passaggio dei corridori, con le scritte pitturate sulla strada, poi seduti su un dosso erboso ascoltando la radio-cronaca: “... un uomo solo al comando... la sua maglia è biancoceleste... il suo nome è... Fausto Coppi”. Maglia Rosa. Vincitore. Ma con i problemi famigliari di una persona comune. Una moglie e una figlia che lo aspettano mentre, invece, per essere se stesso avrebbe bisogno di dimenticare tutto: “a volte mi sembra di essere condannato a un destino che mi offre la gloria e in cambio si prende la felicità...”.

In un dialogo con Biagio Cavanna, esprime i propri dubbi, incalzato dal massaggiatore: “Ognuno di noi ha un fuoco dentro, una scintilla che può divampare come un incendio o spegnersi sonnecchiando. […] C'è solo una cosa che ti devi chiedere... La tua fiamma brucia ancora?”. Per spingerlo a non desistere e a partecipare al Tour de France: se perde, resta un campione, se vince entrambe le competizioni nello stesso anno, come non era mai riuscito a nessuno, diventa un “campionissimo”.

Una brutta caduta durante il Tour de France riporta Fausto Coppi alla nostalgia per la vita tranquilla, per la serenità in famiglia, vorrebbe ritirarsi ma viene sostenuto dal commissario tecnico Alfredo Binda e da Gino Bartali stesso, che lo convince a superare le sue incertezze del genere “qua siamo come burattini, poco più che carne da macello”.

Gli italiani continuano a essere i primi in questo memorabile Tour de France, nell'anno più rappresentativo della storia del ciclismo. Durante la diciassettesima tappa, 19 luglio 1949: la famosa scena dei due campioni [diventata un'icona dell'immaginario collettivo], quasi uno accanto all'altro, con Gino Bartali che passa la borraccia a Fausto Coppi, leggermente davanti. E il fumetto finisce così, prevedendo la vittoria: “Parigi mi appare vicina... per un istante mi scopro felice... non riesco a non commuovermi un po'”.

Le ultime pagine del libro, come un'appendice, “Dietro le quinte”, presentano alcune riflessioni dell'autore sulla scelta di limitarsi a concentrarsi esclusivamente su alcuni “eventi”, senza realizzare una “biografia esaustiva”, notando: “La costante comune in quasi ogni documento che ho consultato era la solitudine di Fausto”. Per cui, per esempio, resta del tutto assente la sua relazione con Giulia Occhini, la “dama bianca”, che tanto clamore e scandalo aveva suscitato nei primi anni cinquanta, quando si considerava l'adulterio un delitto punibile con il carcere [e l'istituzione del divorzio era di là da venire].

Seguono i ritratti letterari dei personaggi che hanno condiviso con il campionissimo l'esistenza privata e la vita professionale: il fratello Serse Coppi [ciclista prematuramente scomparso dopo una brutta caduta nel 1951], Biagio Cavanna, la moglie Bruna Ciampolini, Gino Bartali, Alfredo Binda. Il tutto intervallato da frammenti di story-board, da schizzi, da materiali preparatori.

I disegni in b/n, a parte la copertina, sembrano di getto, in tratti svelti, essenziali, nitidi, e tuttavia vi traspare una scelta sapiente, calibrata, tra realismo abbozzato e deformazione caricaturale [per caratterizzare], non priva di leggerezza e di ironia.


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Giancarlo Pavanello

Frédéric Rébéna – Jean-Marc Thévenet -Rémi Baudouï, Le Corbusier architecte parmi les hommes, Dupuis, 2010

I fumetti divulgativi corrispondono ai romanzi storici o biografici o a tema, su fatti di cronaca, lontanissimi dalla fiction illustrata o dalla fiction disegnata. Hanno il grande merito di insegnare e diffondere la conoscenza in modo facile, non superficiali, tutt'altro, approfonditi ma nell'essenziale, in sintesi, come un invito a continuare nello studio con altre pubblicazioni in base alle bibliografie disponibili.

Questo volume è diviso in due parti, a conferma. La prima parte rivisita gli ultimi quindici anni di Charles-Édouard Jeanneret [detto Le Corbusier] [1887-1965], una ventina di pagine di fumetto vero e proprio, un racconto a flash su vari momenti della vita professionale dell'architetto.

Nel 1951 la visita, nel suo studio, di un ministro suo ammiratore, e già si parla dei progetti in India, commissionati da Nehru, l'importante uomo politico, l'erede spirituale di Gandhi. Nella seconda tavola afferma che intende costruire una città unica al mondo, “per realizzare la gioia di vivere nella semplicità”.

Nel 1952 è a Marsiglia con la sua “unità abitativa” in cemento, al “servizio dell'alloggio delle famiglie”. Ma subito, sempre sulla Costa Azzurra, esprime il desiderio di ritornare al suo “castello”, ossia al suo “cabanon”, la sua capanna di Roquebrune-Cap-Martin, fatta di assi, 1,90x4,00: la sua stanza per la villeggiatura, dove ci fa stare tutto il necessario, dalla cucina al letto allo spazio per dipingere e scrivere. Intanto lo vediamo fare il bagno con il fotografo Brassaï, che gli ha fatto visita.

Nel 1954, a Ronchamp, spiega che l'idea del tetto della Cappella di Notre-Dame du Haut gli è venuta dal carapace di un granchio: “le forme naturali hanno un valore spirituale... senza essere un credente... riconosco il valore della spiritualità”.

Qualche aspetto eccentrico [ma non troppo]: un giornalista suona alla sua porta, Le Corbusier apre ma dice che Le Corbusier è assente [infatti, di mattina si chiama Charles-Edouard Jeanneret ed è un pittore mentre sta dipingendo]. Stessa scena il pomeriggio: questa volta lo fa entrare, è un architetto.

Nel 1956 l'expo di Bruxelles: il padiglione Philips con un'installazione plastica, sonora e colorata, il “Poema Elettronico”, con le musiche di Varèse. E via via i numerosi successi ma anche le incomprensioni e gli intralci, l'affronto delle promesse non mantenute [per esempio da parte del ministro-scrittore Malraux, con il quale lo vediamo in vari colloqui], fino alla speranza [poi realizzata] di una fondazione che gli sopravviva.

Ma le tavole più intense sembrano quelle dedicate alla sua vita quotidiana, al suo mondo interiore: “il vero esiste al di là dell'apparenza”, “anche l'architettura deve tendere a questo aldilà del visibile... benché io sia agnostico, credo in una trascendenza non religiosa”, “ho l'anima di un monaco ma il mio mestiere mi costringe a essere un viaggiatore impenitente”. Un po' deluso, Le Corbusier appare incline a restare nella capanna solitaria di Roquebrune-Cap-Martin dove, ripensando al proprio passato, scivola in una sorta di “silenzio”, come silenziosa è la sua discesa verso l'annegamento, non spiegato, in tre belle vignette mute: di spalle sulla battigia a figura intera, di spalle in primo piano, il mare piatto sullo sfondo, il mare vuoto e il cielo.

La seconda parte propone una cronologia illustrata da documenti appartenenti all'archivio della “Fondazione Le Corbusier”: dagli anni della formazione alla sua identità d'architetto, dalle difficoltà incontrate durante la sua carriera agli aspetti privati della sua esistenza. Con numerose foto di opere e di libri. All'insegna del rinnovamento e dell'essenzialità: senza inutili decorazioni negli spazi abitativi a misura d'uomo.

I disegni di Frédéric Rébéna, con pochi colori non chiassosi, sono essenziali nella loro immediatezza ma precisi nei tratti e nelle caratterizzazioni dei personaggi e delle località, delle architetture: in perfetta sintonia con il taccuino di schizzi di Le Corbusier, di cui vengono riprodotte alcune pagine.

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Giancarlo Pavanello

Christian Straboni – Laurence Maurel, Le Chapeau de Rimbaud, Akileos, 2010


L'Arthur Rimbaud di questo fumetto è un “riflesso”, una interpretazione della sua “leggenda”, in parte di fantasia, presumo, anche se gli autori, nei ringraziamenti, dichiarano di avere attinto dalle opere di numerosi studiosi del grande “poeta maledetto” per antonomasia. Reali sono, comunque, le circostanze, gli spaccati di vita africana, l'auto-allontanamento dalla Francia e dall'Europa, la ribellione contro i letterati, contro la borghesia del suo tempo, i suoi traffici [fra cui, il più confessabile, il commercio di armi].

Tuttavia, il racconto disegnato è un intrecciarsi con un'altra vita parallela, quella di un avventuriero corso, un balordo, un omicida, un avanzo di galera, un evaso, un drogato, suo coetaneo, che nelle vignette gli assomiglia [come un sosia], tanto da indurre a pensare che sia del tutto inventato [ma lo ignoro, forse c'è un minimo spunto in un personaggio reale, magari solo una foto-ritratto d'epoca a Bastia], con la funzione narrativa di esserne l'alter-ego: quello che il poeta francese, nella sua cinica ribellione totale, avrebbe voluto essere, almeno nelle proprie fantasie, nelle proprie visioni e nell'esistenza onirica, senza raggiungere tali vertici di maledettismo.

E infatti, come contraltare, nel fumetto la figura di Rimbaud non appare tanto malvagia e aggressiva, come siamo stati indotti a pensare, o almeno non più di tanto. Il titolo stesso indica un oggetto innocuo, un cappello di paglia fatto arrivare dall'Italia, il simbolo del suo carattere cerebrale, perfino maldestro nella vendita di armi al re Menelik.

E' preferibile leggere questo fumetto come una narrazione del tutto fantasiosa, lasciandoci trasportare dal sapiente gioco degli autori fra realismo e sogno, malgrado le coordinate geografiche e storiche evidenziate: l'Abissinia, il porto di Tadjourah, Aden, Menelik il re guerriero dello Scioa.

Nel 1866 il dodicenne corso Jean-Roch Folelli uccide il parroco in chiesa mentre, lo stesso giorno, il dodicenne Arthur Rimbaud fa la prima comunione a Charleville, nel dipartimento delle Ardennes francesi, confinanti con il Belgio. Poi, dopo una “ellissi” di venti anni, nel 1886 i due protagonisti si incontrano in Somalia, entrambi avevano partecipato alla Comune del 1971. Il primo è sempre in fuga, sempre straniero, un assassino, un evaso, un ricercato, il secondo, celebrato in patria come un maestro della poesia, ha una attività di mercante spregiudicato, in attesa di portare attraverso i deserti un carico di armi a Ménélik, allora in Abissinia: 1800 fucili e 80.000 cartucce.

Istruttivo il punto di vista di Rimbaud, convincenti le motivazioni che lo hanno indotto a mandare al diavolo la poesia e il proprio passato fra i letterati e gli artisti francesi: “ la poesia, tutto un risciacquo... i vecchi amici: fantasmi... la poesia era stata il mio progetto ma è preferibile occuparsi di tutt'altro, di cose tecniche e scientifiche... l'arte è una sciocchezza... non sopporto gli imbecilli... l'ipocrisia...”.

Dopo un ammazzamento [uno che aveva scoperto troppo del suo passato e per di più proprietario di un cavallo da sottrargli], Folelli si aggrega alla carovana, dedito alla masticatura del khat, uno stupefacente locale, e alle conseguenti visioni: uno sciacallo parlante, la regina di Saba, poi concretizzata nella reale Makéda, una nera transfuga da una missione, con la quale si mette a vivere more uxorio, smarrito nel deserto e ritrovato, una aeronave onirica [il futuro aereo].

Mesi di cammino attraverso spaventosi deserti senza strade, tensioni con i carovanieri [provvisti di inquietanti coltelli e di lance minacciose], la morte di un cammelliere in un precipizio [si può immaginare, non fortuita, e se ne può sospettare l'autore], tempeste di sabbia, durante i bivacchi ancora le vedute di Rimbaud sulla poesia: “si salva Baudelaire, a volte Verlaine... gli altri sono tutti garzoni di drogheria, rimaioli... la poesia è un inganno... un'impresa vana... la vera formula sta nella vita...”. Altri omicidi [un vecchio missionario, un fabbro fabbricatore di coltelli: malgrado le ellissi, è intuibile l'assassino per futili motivi o per motivi inesistenti... o è tutta una visione].

Infine, non senza essere tampinato dai creditori, e dopo avere incrociato una carovana di schiavi guidati da arabi, Rimbaud arriva al cospetto del re Menelik, il futuro imperatore d'Etiopia, che non gli risparmia un voltafaccia. Guadagni molto inferiori a quelli pattuiti, un fiasco, povero trafficante: per rifarsi, decide di andare al Cairo [in quarta di copertina una breve nota sintetizza: [Folelli e Rimbaud] sono “alla ricerca di un altrove sempre sfuggente”.

Intanto, la storia dell'avventuriero corso, l'alter-ego delle visioni, si chiarisce: aveva ucciso il parroco per vendetta [poiché aveva consegnato il padre assassino alla polizia, poi ghigliottinato]. Sempre più in preda alla follia, incontra due guerrieri neri, uno dei quali, in tutta evidenza, ha rubato il “cappello di Rimbaud” [a suo tempo fatto arrivare dall'Italia]... i quali lo seppelliscono vivo fino alla testa e lo abbandonano al suo destino. Ecco un verso di Rimbaud: “la pelle della mia testa si dissecca”.

L'io narrante, Folelli, morto nel deserto, e Rimbaud, disilluso anche dai traffici e dalla vita avventurosa, si trova su una nave in partenza per il Cairo. In lontananza, vede il cappello sulla testa di uno dei due guerrieri [vagamente assomigliante a quello che, nelle illustrazioni più celebri, indossa Don Chisciotte]. La sua ultima battuta ne rivela la svolta rinunciataria: “non sto bene con il cappello...”. Parafrasando alcuni versi di una sua poesia, “Départ”, “Partenza”: ha visto abbastanza, ha avuto abbastanza, ha conosciuto abbastanza... ha avuto abbastanza visioni.

Il libro termina con alcune poesie del poeta francese e con alcune tavole preparatorie di Christian Straboni, autore del soggetto e dei disegni, in b/n, tracciati con l'immediatezza di segni non indulgenti con i dettagli inutili: essenziali, immediati, neo-espressionisti.

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Fred Vargas e Baudoin, i quattro fiumi, Einaudi, 2010

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Giancarlo Pavanello

Vauro, sbatti il Vauro in prima pagina, il manifesto, s. d. [2010]

Una scelta delle vignette di Vauro apparse sulla prima pagina del “manifesto” nell’arco di dieci anni, dal 28 gennaio 2000 al 30 marzo 2010. Valentino Parlato, nell’introduzione, le definisce “accoltellanti”: in più,  essendo le espressioni del giudizio del giornale sul fatto del giorno, le considera veri e propri “editoriali”, poiché “si scrive anche dipingendo e disegnando, facendo satira attraverso il disegno”. Una tradizione, questa, risalente a William Hogarth, a Honoré Daumier, a Giuseppe Scalarini e a Mino Maccari [disegnatori che “ai potenti e agli imbroglioni diedero sferzate assai più forti ed efficaci che non tanti raffinati o veementi scritti”. Inserito a pieno titolo nella “storia dei caricaturisti politici” in Italia e in Europa.

Il limite di questo genere di “fumetto”, risolto in una sola vignetta, è spesso il suo carattere allusivo, il riferimento alla cronaca giornalistica, alla cronaca quotidiana, ai fatti che entro poco tempo sfuggono alla comprensione della maggioranza dei lettori. Abbastanza effimero, in un certo senso, proprio come gli articoli da leggere giorno dopo giorno o le notizie date in TV: se, per qualche ragione, ci si sottrae per un brevissimo periodo, poi si perde il filo del discorso, diventato perfino inintelligibile se si ignora un’“ellissi” [la parte taciuta ma legata a una “puntata” precedente].

Per questo motivo appare doverosa, in un’antologia di vignette satiriche, soprattutto politiche, qualche spiegazione o, come nel caso di questo volumetto, un “sommario”, per inquadrare la situazione o il personaggio o l’avvenimento presi di mira dalle frecciate del disegnatore.

Ogni vignetta occupa un’intera pagina e in calce viene messa una esauriente didascalia per una comprensione ottimale, come un inquadramento storico. Si comincia con l’allarme contro le nuove ondate razziste in Europa [con il successo elettorale di Haider], e via via ce n’è per tutti: il papa, le discusse elezioni negli USA, la “mucca pazza”, il rifiuto dell’immigrazione clandestina, Arafat, Cofferati, Prodi, la Moratti ministro della pubblica istruzione [definita “Morattila”], la guerra [e siamo solo al 2004].

Poi arriva il personaggio più molesto che imperversa sulla scena politica a tempo pieno: B., per il quale si sprecano le vignette fra le più virulente [giustamente], rappresentato come un omino basso molto basso e ridicolo, poco più di un topo, meschino quanto basta, di basso profilo, sempre pronto a fare dispetti e a tramare furbetterie per conservare un potere inacidito e poco raccomandabile.

L’“alta velocità”, la fame nel mondo, la base Usa a Vicenza, l’Afghanistan, i morti sul lavoro, il “family day” e la pedofilia, Veltroni [che vuole “vederci chiaro”: allora un altro omino è pronto con la spugna a lavargli gli occhiali, un riferimento alle polemiche sui “lavavetri” a Firenze], il “ciclone Grillo con il suo Vaffa…day”, i sindacati, il G8.

Sul problema dei “prostituti o di sinistra nella RAI”. Un signore chiede: “E in Mediaset?”. E il noto omino stra-potente e con conflitti d’interesse alle stelle, con il solito sorriso stereotipato a tutta dentiera, risponde: “Beh, lì di sinistra non c’è nessuno!”. Ancora Bush, la borsa, Israele, il triste caso di Eluana Englaro, le ronde [i “volontari della sicurezza”, pronti a sostituire con spranghe e catene i “branchi” di teppisti].

Con il 19 aprile 2009 siamo al terremoto a L’Aquila, dove il solito personaggino capo del governo è sempre là a presenziare per farsi pubblicità e cercare un consenso che diminuisce: “Viene così spesso che hanno montato una tenda tutta per lui!”. La tenda è quella di un circo per accoglierlo  come un clown.  Infine arriviamo a Dell’Utri e al Carroccio [la Lega Nord sul carro del vincitore]. La tragicomica cronaca italiana continua.

Superfluo ribadire che il punto di vista è quello di una sinistra critica, da rifondare, ammesso che ci si creda e non si sia già troppo disillusi, in opposizione alla destra e ai rimescolamenti delle carte più o meno opportunistici di un generico “centro-sinistra” in crisi d’identità. Conservando queste schematizzazioni “ideologiche” per praticità e per farsi capire a volo.

Una riflessione: le immagini fumettate, una per una, fanno ridere, e molto, anche a crepapelle, eppure quando si chiude il libro, dopo averle viste e lette tutte d’un fiato, si prova un senso di tristezza o di malinconia: i fatti raccontati ed esposti, presi nell’insieme, inducono a una visione cupa, a posteriori, vi si nota il trionfo della stupidità e dell’ignoranza, il sopravvento della meschinità e della violenza, e non solo in Italia, in tutto il mondo [da noi, di più]. La vignetta satirica tende a smussare gli angoli, a edulcorare: prendere in giro potrebbe significare “si può accettare” o “tutto sommato la cosa non è tanto grave”… o no… eppure i potenti indegni hanno paura delle contestazioni umoristiche, considerate destabilizzanti [benché disarmate].

Due parole sul “disegno” di Vauro. Lo si direbbe di tipo “tradizionale”, appartenente al filone vignettistico-caricaturale iniziato nel fumetto nel primo Novecento e diventato più snello e disinvolto negli ultimi decenni del secolo scorso: nelle storie della “bande dessinée” francese si riconosce perfino uno stile grafico definito “gros nez” [“naso grosso”], con riferimento anche alla sproporzione fra le altre parti anatomiche delle figure umane [orecchie, piedi, mani].

Tuttavia, il suo tratto è inconfondibile: sono noti al grande pubblico i disegni eseguiti in diretta che hanno accompagnato la trasmissione “Anno Zero”, in TV, e presentati in fine-serata per concludere in allegria le puntate che di umoristico avevano assai poco. Gli omini tutti nasi e con occhi come palle di biliardo, con le pancette e con le gambe secche: insomma, grotteschi e, nel caso dei personaggi pubblici, riconoscibilissimi, vere e proprie caricature.

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2011


Fred Bernard, L’Uomo Bonsai, Tunué [editori dell’immaginario], 2011 [traduzione: Stefano Andrea Cresti – colori: Delphine Chédru]. Una favola fantastica disegnata in punta di pennino con l’immediatezza di chi intende allontanarsi dalle forme  accademiche, comprese quelle delle scuole del fumetto, benché l’autore abbia fatto anche studi specifici in un’Accademia di Belle Arti e sia un illustratore di libri per bambini. Un segno personale, espressionistico, spontaneo per narrare la strana vita di Amédée il Vasaio: abbandonato su un’isola deserta da terribili pirati, gli cade un seme sulla testa dove, dopo un po’, si accorge che gli cresce un bonsai, e infine diventa un albero gigantesco egli stesso. A parte il racconto pieno di episodi avventurosi, sembrerebbe un’allusione ai quattro elementi dei filosofi pre-socratici: il fuoco, la terra e l’acqua dell’artigiano produttore di oggetti d’uso diventano lo scenario del suo tragico destino, ossia il mare, i continenti, le armi da sparo e i fuochi artificiali… e l’aria in cui si erge maestoso il protagonista metamorfosato. 

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Robert Crumb, “il libro della Genesi”, Mondadori, 2011. La Chiesa Cattolica non invita molto alla lettura della Bibbia, giustamente, essendo strapiena di fatti orripilanti che fanno invidia alla tradizione occidentale e moderna dei romanzi libertini del Seicento-Settecento, anche se i fatti narrati vanno letti nel contesto antico e spesso in termini traslati o non esclusivamente in senso letterale. Tanto per fare un esempio ricordiamo il capitolo 19. La distruzione di Sodoma e Gomorra [con la moglie trasformata in una statua di sale]: le due figlie di Lot, preoccupate dal fatto che nel paese non ci siano uomini con cui accoppiarsi per portare avanti la stirpe, si uniscono al padre senza che se ne accorga, coricandosi con lui dopo avergli fatto bere un po’ di vino [un eufemismo per “ubriacare”, che a sua volta potrebbe coprire un’ipocrisia, interpretazione mia], la maggiore durante la prima notte e la minore la notte seguente. Un doppio incesto. Nell’introduzione, Robert Crumb, che preferisce definire “libro illustrato” la propria fatica, e non un “fumetto”, afferma di avere riprodotto ogni parola del testo originale, desunta da molteplici fonti.



Robert Crumb, De l'underground à la Genèse, Musée d'Art moderne de la Ville de Paris [13 avril - 19 aou^t 2012], 2012 [catalogo]

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Giancarlo Pavanello

Antonio Dal Muto – Luca Ponte – Daniele Cavallari - con la consulenza storica e dialettale di Francesco Luciani, La storia di Comacchio a fumetti, C&D Studio, s.a.s., 2011

Il libro si inserisce a pieno titolo nel collezionismo di “storia locale” oltre che in quello del fumetto. La salvaguardia della memoria collettiva alla portata di tutti: le antichissime origini di Comacchio, un orgoglio per i comacchiesi, defilati ma anche sempre attenzionati da tante popolazioni di ogni provenienza per il loro insediamento strategico sul mare e in prossimità della terraferma: “Quando Venezia e Ferrara sono nate, Comacchio esisteva già da secoli!”. Da pochi decenni, se non da pochi anni, sempre più viva appare la loro rivendicazione a una centralità che sia anche una più solida ripresa culturale ed economica.

La storia di Comacchio è vista e disegnata attraverso il racconto di una nonna al nipote, in un provvidenziale black-out [causato da un temporale], che impedisce al ragazzino l'uso del PC e la playstation, favorendo la conoscenza delle loro origini, iniziando da Spina, precedente la stessa Comacchio, poi decaduta, i cui abitanti di varie razze erano noti come “etruschi”, un porto fiorente e pieno di traffici mercantili, da nord a sud, da oriente a occidente, un “crocevia terrestre, marittimo e fluviale”.

Comacchio era sorta nelle vicinanze della città scomparsa [si direbbe come una piccola Atlantide], seguendo il mutare del territorio, mentre il mare si allontanava. Così la nonna continua a raccontarne i vari momenti cruciali: dai visigoti ai longobardi e ai bizantini [o “romani d'oriente”, da cui la zona denominata “Romània”, “Romagna”], fino alla “visita” di Carlo Magno, nell'anno 806, fino alla cruenta rivalità da parte di Venezia, che l'aveva distrutta due volte fra l'854 e il 932.

Con il nuovo millennio, la pesca e in particolare la pesca all'anguilla, assieme alla produzione del sale, avevano contribuito al fabbisogno della popolazione, che per secoli aveva dovuto fare i conti con la povertà e le difficoltà: “le basi della ricostruzione”, sostenute da una grande spiritualità, di cui era un importantissimo avamposto l'abbazia di Pomposa.

L'imperatore Federico II l'aveva definita “nobile e famosa”, l'Emilia e il Veneto la volevano. Ferrara, Ravenna, Venezia miravano al suo sale, il papato l'aveva presa sotto la sua “protezione”, infine diventata un “feudo estense”, un'epoca in cui i comacchiesi erano ridotti alla miseria più nera e sottoposti a vessazioni proprio mentre nelle città più potenti trionfavano la raffinatezza e il lusso del Rinascimento. Fino alla riscossa del 1597, con il ritorno al seno di Roma.

Infine una lenta rinascita, come il centro più conclamato delle “valli”, di cui era un segno evidente la costruzione del caratteristico “trepponti”, scalinate poggianti su tre arcate, facenti parte di un unico corpo [1634]. Ma anche la continuazione delle sue traversie, della sua povertà, delle mire espansionistiche di stati italiani e stranieri, fino al passaggio di Garibaldi sull'attuale “Lido delle Nazioni”, nel 1849, con la tragica fine di Anita.

Con l'unità d'Italia Comacchio riacquistò la gestione diretta delle valli... ma rimaneva il solito divieto di pesca, che fece sì che il fenomeno dei fiocinini si consolidasse”: ladri i comacchiesi? La nonna spiega al nipote, giustamente: “Ma se rubavano, rubavano il loro pesce nelle loro valli... E lo facevano per sfamare le loro famiglie!”.

Sembra la parte più affascinante della storia di Comacchio: non la ricchezza e l'arroganza dei potenti, non il lusso e la magnificenza dei monumenti, ma la sopportazione non piagnona [non priva di ironia e di auto-ironia] e gli espedienti più onesti per la sopravvivenza, per sfuggire alla fame e alla miseria, per secoli.

A poco a poco, nel XX secolo, la riabilitazione: le strade, fra cui l'inizio della Romea, la ferrovia, la bonifica delle valli, la varietà del lavoro, la scoperta delle vestigia dell'antica città etrusca di Spina, il museo archeologico di rilevanza mondiale a Ferrara [ora giustamente rivendicato dai comacchiesi, che ne trarrebbero notevoli benefici a riaverlo, soprattutto nel rendere tangibile la loro memoria storica], l'allungamento della pineta di Classe fino a Volano [anticamente arrivava a Venezia].

Solo nel 1953 l'arrivo dell'acqua potabile in città, “senza pagare”, mentre prima veniva trasportata in barca o su carri dentro botti di legno per il fabbisogno della popolazione.

A questo punto siamo nella storia recente: dopo la tutela delle valli come “zona umida di interesse europeo”, nel 1988 la creazione del Parco del Delta del Po.

Ed ecco i futuri Lidi di Comacchio [una denominazione più appropriata di “lidi ferraresi”], iniziati negli anni cinquanta su intuizioni di due agricoltori romagnoli, che ne avevano capito le potenzialità turistiche. Divertente la maliziosa vignetta che segna questo trapasso alla cronaca attuale: alcuni giovani giocano sulla spiaggia mentre il giradischi suona una canzone dell'epoca: “binario, triste e solitario”.

Dal 1954 l'interesse del grande cinema per quelle zone, soprattutto neo-realista, che rendeva un omaggio più o meno indiretto al fascino del Delta del Po, di cui Comacchio può essere considerata la “capitale”. Nel 1972: la strada-argine degli Acciaioli.

E il progresso sembra continuare, sia pure in fasi alterne, come la nonna del fumetto sa bene quando conclude con orgoglio e con una netta coscienza ecologistica: “scrivere le pagine del nostro destino da protagonista... una storia di luci e ombre”.

I disegni di Antonio Dal Muto sono semplicemente belli: gradevoli, magistrali, nitidi nel segno e negli sfumati, nelle ombreggiature, un b/n preciso e in tutta evidenza basato su documenti iconografici che rendono credibilissimi i costumi e le ambientazioni, definiti con leggerezza e, spesso, con humour, di pari passo con l'ironia intermittente della sceneggiatura che, di sicuro, intende rispecchiare il carattere dei comacchiesi.

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Benoît Guillaume, Le Fantôme, L’Association, 2011. Il diciassettenne Mathieu non aspetta nemmeno che sia finita la propria sepoltura per eclissarsi come fantasma e raggiungere gli altri morti, accolto cortesemente come un ospite nuovo arrivato: la sua missione dovrebbe consistere nel perseguitare i vivi, in particolare i suoi ex vicini di casa, una coppia rumorosa, litigiosa e violenta anche quando fa l’amore, sempre all’interno delle mura domestiche, mentre è ipocrita e in apparenza beneducata quando è a tu per tu con gli estranei. In realtà è il giovanissimo protagonista a subire la loro prevaricazione e la loro volgarità, fatta di chiasso assordante e  di lezzo del barbecue proveniente dal giardino condominiale. Una storiella raccontata in prima persona con disegni del tutto lontani dalle preoccupazioni dell’anatomia umana e della prospettiva, spontanei, espressivi, e sapienti.

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Stan Lee e John Buscema, disegnare i fumetti in stile Marvel, edizioni BD, 2011. Gli stridori auto-pubblicitari in copertina, prima e quarta: "la Bibbia dei disegnatori americani", "per la prima volta in edizione italiana", "su cui hanno studiato i più grandi disegnatori di comics", "un grande classico, immancabile sul tavolo da lavoro degli artisti della casa delle idee", "i trucchi del mestiere per realizzare fumetti poderosi", "Stan Lee, l'artefice dell'universo Marvel!", "John Buscema, il Michelangelo dei fumetti!". Un manuale teorico-pratico che insegna lo stile dei super-eroi. Viene lo scoramento di fronte a tanta bravura, chi potrebbe competere? Giustamente, dal loro punto di vista americano, non c'è spazio per altre scelte, per una visione in linea con un ritorno a un figurativismo primitivo, magari europeo o giapponese, in sintonia con varie tendenze della cosiddetta Grande Arte attuale.

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Massimo Rotundo - Marco Vignati, sei lezioni sul fumetto, Dino Audino editore, 2011. Come recita il sottotitolo: un "manuale pratico per diventare fumettisti". Il primo autore è un disegnatore, il secondo uno sceneggiatore e un disegnatore.  Sulla realizzazione di un fumetto come viene concepito in Italia ma anche da altri paesi, a livello internazionale in una sua linea si direbbe accademica. Entrambi docenti della "Scuola Romana dei Fumetti". Mi piace, nella presentazione, la definizione di questo genere letterario-artistico come "una forma espressiva a metà tra l'arte e l'artigianato". Quindi: una professione, un artigianato da "bottega d'arte" [nel senso migliore del termine], tutto il lavoro eseguito da una sola persona o frutto di un lavoro d'équipe: il soggetto, la sceneggiatura, il disegno, l'inchiostrazione, la copertina, eccetera. In tutta evidenza concepito per l'industria editoriale.

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2015

REM, antologia di 22 sogni a fumetti: Luisa Cresti, Roberto Colin, Tommaso Dall'Osto, Federico Baggi, Matteo Rubini, Bruno Cucchi, Flavia Carrus, Giuseppe Strati, Lorenza Luzzati, Roberto Condò, Ambra Becchini, Marco Vratogna, Giuseppe Ciullo, Giuseppe Fazio, Simone Corbetta, Lorenzo Drago, Andrea Colombo, Giancarlo Pavanello, Maurizio De Vitis, Lorenzo Fiasco,  Dana Maestri, Patrizia Lorusso - illustrazioni di Patrizia Lorusso, grafica e impaginazione di Lorenza Luzzati e Flavia Carrus, copertina di Giuseppe Fazio e Giuseppe Strati - Scuola Superiore d'Arte Applicata, Milano, 2015